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T&P Magazine

RIFIUTO DI RENDERE LA PRESTAZIONE LAVORATIVA A SEGUITO DI TRASFERIMENTO

A cura di Giorgio Molteni e Antonio Cazzella

 Con sentenza n. 4795 del 19 febbraio 2019 la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice, che – a seguito del trasferimento per chiusura del punto vendita ove era adibita – si era assentata per malattia dopo aver preso servizio presso la nuova sede; al termine della malattia, ella aveva comunicato il suo rifiuto, per ragioni familiari, di rendere la prestazione presso la nuova sede di assegnazione, dichiarandosi tuttavia disponibile a prendere servizio presso altro punto vendita esistente nella sede di provenienza. La Suprema Corte ha confermato l’orientamento in materia di eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ., rilevando che, nel caso di specie, la dipendente aveva opposto un rifiuto aprioristico di eseguire la prestazione in mancanza di un “inadempimento tale da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali” e ciò anche in considerazione del fatto che il ricorso ex art. 700 cod. proc. civ., proposto dalla lavoratrice per sospendere l’efficacia del trasferimento, era stato rigettato. A tal riguardo, la Suprema Corte ha ricordato che la scelta dell’imprenditore di attuare un trasferimento non deve necessariamente presentare il carattere dell’inevitabilità, essendo sufficiente che tale provvedimento concreti una delle ragionevoli scelte adottabili sul piano tecnico, organizzativo e produttivo. In particolare, la Suprema Corte ha altresì rilevato che il giudice di merito aveva correttamente ritenuto irrilevante la circostanza che, prima della chiusura del punto vendita e del contestuale trasferimento, il datore di lavoro avesse assunto altri lavoratori in punti vendita operanti presso la sede di provenienza della lavoratrice, trattandosi di fatti “da inquadrarsi pur sempre nell’ambito delle scelte imprenditoriali ed irrilevanti al fine di ritenere che quella adottata al momento della chiusura del punto vendita cui la ricorrente era addetta fosse una scelta irragionevole ed integrante una violazione dei principi di buona fede e correttezza, intesi quali limiti all’esercizio dei poteri imprenditoriali”.

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