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Responsabilità degli amministratori, la prescrizione si allunga se il Giudice civile accerta la presenza di reati.

Di Vittorio Provera

Nell’ambito delle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori delle società di capitali, la determinazione di quali siano i termini di prescrizione assume una notevole rilevanza; tanto più con riferimento a situazioni in cui dette iniziative sono assunte dal curatore di una procedura fallimentare, per tutelare le legittime aspettative dei creditori in ordine alla ricostituzione del patrimonio del fallito. In tale contesto vengono in evidenza peculiari condotte degli amministratori che hanno contribuito al dissesto dell’impresa e che possono integrare specifiche fattispecie di reato. L’accertamento, in sede civile, dell’esistenza di tali fattispecie di reato condiziona l’applicazione delle norme in tema di prescrizione delle azioni inerenti la responsabilità dell’organo gestorio dell’impresa poi fallita.

La tematica è stata affrontata in una recente sentenza del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di impresa (sentenza n. 11046 pubblicata il 31 ottobre 2018). Il caso prende avvio dall’azione di responsabilità promossa - con citazione notificata il 16 aprile 2015 ad iniziativa del curatore di una società a responsabilità limitata fallita nell’agosto 2009 - nei confronti del socio e amministratore unico della predetta società  (che aveva  mantenuto nella sostanza la carica  dalla costituzione dell’impresa al fallimento); nonché nei confronti di altro socio ( che deteneva il 70% delle quote per via di interposta società fiduciaria e che avrebbe svolto – a dire dell’attore – il ruolo di amministratore di fatto della S.r.l. dal 2006 al 2009).

Ai due convenuti  erano contestati: (i)  indebiti prelievi di somme  eseguiti, nella sostanza, dall’amministratore di fatto nel periodo dal 2007 al 2009; (ii) l’irregolare tenuta della contabilità; (iii)  nonché l’ingiustificata prosecuzione dell’attività di impresa,  pur essendo il capitale sociale già stato azzerato nel corso dell’esercizio 2004. A fronte di tale rilievi erano formulate richieste risarcitorie pari all’importo delle somme distratte, nonché al disavanzo fallimentare.

In questo commento ci si sofferma, in particolare, sulle valutazioni svolte nella sentenza in merito alla posizione dell’amministratore unico ed a talune eccezioni e difese del medesimo. Più precisamente, questi aveva dedotto (i) un’ eccezione di prescrizione quinquennale, asserendo peraltro che avrebbe dato le dimissioni dalla carica amministrativa il 16 gennaio 2007, anche se dette dimissioni non erano state ufficializzate per la mancata collaborazione allo svolgimento dell’assemblea da parte della società fiduciaria intestataria delle quote pari al 70% del capitale per conto dell’altro socio; (ii) nonché il mancato svolgimento di qualsiasi attività gestoria dopo il  gennaio 2007, allorchè ogni atto di amministrazione  sarebbe stato  riferibile esclusivamente all’altro socio, che avrebbe operato quale amministratore di fatto.

Riguardo a tali argomentazioni il Tribunale ha, innanzitutto,  richiamato il disposto dell’art. 2947 terzo comma c.c. secondo cui,  qualora il fatto illecito posto a base del diritto al risarcimento del danno sia considerato dalla legge come reato e  per detto reato sia stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile. In aggiunta (ed anche alla luce di un principio riaffermato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 16314 del luglio 2017), si è  precisato che la  previsione del citato articolo 2947 terzo comma c.c. va riferito al danno sia da fatto illecito extracontrattuale che da fatto illecito contrattuale, purché sia considerato dalla legge come reato. Alla luce di quanto precede, nella decisione in commento si è motivato che l’applicabilità della norma “prescinde dall’effettiva promozione o meno del processo penale per fatti in discussione………. in ogni caso essendo demandato al giudice civile l’accertamento incidenter tantum della configurabilità come reato delle condotte poste a base della domanda risarcitoria”. Detto accertamento deve avvenire ( anche se il giudizio penale non è stato promosso per difetto di querela) con gli strumenti probatori ed i criteri propri del procedimento civile. Su queste basi, in relazione agli indebiti prelievi posti in essere dall’altro socio “amministratore di fatto”, si è accertato, incidenter tantum, la commissione da parte dell’amministratore di fatto, in concorso con l’amministratore unico, del reato di bancarotta fraudolenta previsto dall’art. 216 primo comma n. 1 L.F. , avuto riguardo  ai prelievi  materialmente posti in essere da primo. Sul punto, la responsabilità penale dell’amministratore in prorogatio è conseguenza della circostanza che quest ultimo,  dopo le dimissioni “ aveva omesso qualsivoglia doverosa vigilanza disinteressandosi ….  completamente delle vicende sociali e così consentendo  il maneggio dei fondi sociali da parte di soggetto privo di ogni investitura”. Anche in riferimento all’ulteriore contestazione, consistente nella prosecuzione dell’attività di impresa dopo il 2004 (allorché il  capitale sociale era già azzerato), il Tribunale ha accertato -  in capo all’amministratore unico (in concorso con l’altro socio) -  una condotta penalmente rilevante, costituita  dell’aggravamento del dissesto, determinato da una  attività di impresa continuata indebitamente ( reati previsti dall’art. 217 n. 4 L.F. o dall’art 223 secondo comma L.F.) . In merito  l’amministratore, pur dimissionario ma ancora in carica, avrebbe avuto comunque uno specifico dovere di vigilanza e di intervento onde attivare le iniziative che avrebbero impedito detta continuazione. Compiuto tale duplice accertamento, ne discende che non può essere accolta la tesi inerente l’applicazione ( per l’esperimento dell’azione civile) del termine prescrizionale quinquennale (di cui all’art. 2947 c.c. primo comma);   ma del più elevato termine prescrizionale previsto per i reati di cui sopra ( ad esempio, per la bancarotta fraudolenta la prescrizione è di 10 anni che decorrono dalla sentenza di fallimento, termine che dunque opera anche in ambito civile , giusta la previsione dell’art. 2947 terzo comma c.c.) .

La sentenza in commento costituisce una corretta e motivata applicazione degli strumenti previsti dalle norme inerenti la facoltà del giudice civile di effettuare accertamenti di fatti reato, con le relative conseguenze anche riguardo al decorso a termini prescrizionali; il tutto - peraltro - in un ambito assai complesso qual è  quello di una procedura fallimentare,  ove risulta spesso difficoltosa e non  agevole anche sotto l’aspetto temporale la ricostruzione e l’accertamento ex post delle pregresse condotte degli organi gestori.

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