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Quando la pubblicazione tramite Facebook configura un comportamento rilevante ai fini della giusta causa di recesso

Quando la pubblicazione tramite Facebook configura un
comportamento rilevante ai fini della giusta causa di recesso

A cura di Antonio Cazzella

E’ oramai assodato che l’utilizzo dei social network può comportare la lesione della propria privacy, come hanno dimostrato, anche recentemente, i noti fatti relativi all’acquisizione, da parte della società Cambridge Analytica, di informazioni pubblicate su Facebook da parte di milioni di utenti.

Peraltro, l’utilizzo di Facebook può anche determinare la perdita del posto di lavoro; si tratta di un fenomeno che, negli anni, ha assunto proporzioni davvero rilevanti (pare che in un blog creato oltreoceano – dall’eloquente titolo “The Facebook fired – vengano raccontate esperienze vissute per descrivere come le pubblicazioni sul social abbiano influito negativamente sulla carriera professionale).

A tal riguardo, anche recentemente, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 10280 del 27 aprile 2018, ha esaminato una fattispecie di licenziamento per giusta causa, comminato ad una dipendente che aveva pubblicato, sulla propria bacheca di Facebook, affermazioni del seguente tenore: “mi sono rotta i co… di questo posto di merda e per la proprietà”.

La Suprema Corte, nel ribadire che la valutazione della giusta causa di licenziamento deve essere operata “in senso accentuativo rispetto alla regola della “non scarsa importanza” dettata dall’art. 1455 c.c.”, ha ritenuto legittimo il provvedimento, precisando, con riferimento alla frase pubblicata, che doveva ritenersi irrilevante la mancata indicazione del nominativo del rappresentante dell’azienda, essendo lo stesso facilmente identificabile.

In particolare, la Suprema Corte ha precisato che “la condotta di postare un commento su facebook realizza la pubblicazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione”.

Le valutazioni dei giudici, tuttavia, non sono sempre scontate, anche in relazione a comportamenti che si appalesano indiscutibilmente gravi.

Infatti, con sentenza n. 2499 del 31 gennaio 2017, la Suprema Corte ha esaminato una fattispecie in cui il lavoratore aveva pubblicato, in una chat privata di Facebook, un’immagine che raffigurava (tra l’altro) un tappo di vasellina con il segno distintivo del gruppo (una nota casa di moda) e la scritta “… vasellina la trovi nei migliori outlet”.

La Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento, rilevando che, ai fini della lesione dell’immagine aziendale, si deve tener conto non solo del fatto commesso (e, quindi, della possibilità che un dipendente eserciti legittimamente il diritto di critica e di satira nei confronti del datore di lavoro), ma anche della divulgazione di tale comportamento (che, nel caso esaminato dalla sentenza, era limitata al gruppo della chat, composto da poche persone, tutti dipendenti dell’azienda).

Anche la giurisprudenza di merito è oscillante riguardo la possibilità di configurare una giusta causa di recesso in caso di pubblicazioni su Facebook.

A tal riguardo, con sentenza del 28 dicembre 2015, il Tribunale di Ivrea ha ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente (riammesso in servizio a seguito di una sentenza che aveva accertato l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro), il quale aveva pubblicato sulla propria bacheca Facebook la lettera di riammissione in servizio, accompagnandola da un post con frasi gravemente offensive nei riguardi dell’azienda e della vita sessuale delle colleghe di lavoro, che gli avevano riservato un’accoglienza calorosa al suo rientro in servizio.

Ed ancora, il Tribunale di Bergamo, con sentenza del 24 dicembre 2015, ha ritenuto che la pubblicazione sul profilo Facebook di una foto nella quale il dipendente impugna un’arma sia suscettibile di integrare la giusta causa di licenziamento.

In senso favorevole al lavoratore si è invece pronunciato, con sentenza del 19 novembre 2013, il Tribunale di Ascoli Piceno, che ha esaminato il caso del dipendente di un grande magazzino, obbligato ad effettuare un turno di lavoro il giorno di Pasquetta, il quale aveva pubblicato sul suo profilo Facebook il seguente un post: “Un vaffa…. di cuore ai clienti che oggi sono venuti a comprare le vitarelle a Brico invece di fare la scampagnata di Pasquetta!!!!”. Anche se il lavoratore, a seguito del richiamo verbale del direttore, aveva rimosso il post dopo circa 20 minuti, l’azienda gli ha comunque intimato il licenziamento, ritenuto illegittimo, in quanto, ad avviso del giudicante, il fatto configurava un semplice “sfogo scomposto”, non offensivo, in considerazione della limitata diffusione della frase, visibile ad un numero ristretto di contatti e rimossa poco dopo la pubblicazione.

Il Tribunale di Milano, con sentenza del 1° agosto 2014, ha esaminato la fattispecie di un lavoratore che, durante l'orario di lavoro, aveva pubblicato su Facebook tre fotografie che lo ritraevano insieme a due colleghi nei locali aziendali, corredate da didascalie ingiuriose dal seguente tenore: “Come si lavora alla A. s.rl. ditta di merda”; in tal caso, il Tribunale ha ritenuto legittimo il licenziamento, rilevando che l’ingiuria era idonea a raggiungere un numero consistente di contatti e, per i termini impiegati, suscettibile di ledere l'immagine aziendale.

Il quadro è, quindi, indubbiamente incerto, anche se l’obiettiva gravità dell’offesa e la potenziale diffusione della pubblicazione ad un numero elevato di contatti costituiscono importanti indici per ritenere legittimo il provvedimento espulsivo.

Tra l’altro, è interessante evidenziare che l’utilizzo di Facebook da parte del datore di lavoro può consentire a quest’ultimo di accertare comportamenti del dipendente disciplinarmente rilevanti.

Infatti, la Suprema Corte, con sentenza n. 10955 del 27 maggio 2015, ha affermato che “la creazione da parte del datore di lavoro di un falso profilo “facebook” attraverso il quale "chattare" con il lavoratore, al fine di verificare l'uso da parte dello stesso del telefono cellulare durante l'orario di lavoro, esula dal campo di applicazione dell'art. 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300, trattandosi di un'attività di controllo che non ha ad oggetto l'attività lavorativa ed il suo esatto adempimento ma l'eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, idonei a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti”.

 

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