La registrazione di conversazioni e di video sul luogo di lavoro: comportamento disciplinarmente rilevante o legittimo esercizio del diritto di difesa?
A cura di Antonio Cazzella
Con due sentenze del maggio 2018, la Suprema Corte si è nuovamente pronunciata su una particolare fattispecie, che ha costituito l’occasione per effettuare una sintesi di alcuni principi in materia di privacy: in particolare, la Corte di Cassazione ha dovuto valutare se sia legittimo, da parte di un lavoratore, registrare conversazioni e/o video sul luogo di lavoro ed all’insaputa dei colleghi.
Con sentenza n. 11322 del 10 maggio 2018, la Suprema Corte ha esaminato il caso di un dipendente che, in sede di giustificazioni orali nell’ambito di un procedimento disciplinare, aveva consegnato una chiavetta USB contenente registrazioni di conversazioni effettuate in orario di lavoro e sul posto di lavoro, coinvolgenti altri dipendenti, ad insaputa degli stessi. All’esito di ulteriori verifiche, era emerso che il dipendente aveva effettuato altre registrazioni, come segnalato dai colleghi di lavoro, che avevano riferito di averlo visto continuamente anche scattare foto e girare video sul posto di lavoro, senza alcuna autorizzazione da parte loro; era stato, quindi, avviato un ulteriore procedimento disciplinare, che si era concluso con il licenziamento del dipendente, ritenuto illegittimo dalla Corte di merito.
La Suprema Corte ha ricordato che, ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, il trattamento dei dati personali è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato, come stabilito dall’art. 23 del citato decreto legislativo; in particolare, la Corte di Cassazione ha evidenziato che, per “trattamento” dei dati personali, si deve intendere qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati (art. 4, lett. a); per “dato personale”, si deve intendere qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale (art. 4, lett. b), e così, dunque, “qualunque informazione che possa fornire dettagli sulle caratteristiche abitudini, stile di vita, relazioni personali, orientamento sessuale, situazione economica, stato civile, stato di salute, etc. della persona fisica, ma anche, e soprattutto, le immagini e la voce della persona fisica”.
La Suprema Corte ha, altresì, ricordato che l'art. 167, comma 1, del D.Lgs. n. 196 del 2003, prevede due distinte condotte tipiche, diversamente sanzionate, che presuppongono un preventivo trattamento dei dati personali altrui: la prima è quella relativa al trattamento illecito di dati personali da cui derivi nocumento al titolare dei dati stessi; l'altra consiste nella comunicazione o nella diffusione dei dati illecitamente trattati, indipendentemente dal potenziale nocumento che ne derivi a terzi (ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. m); la condotta di diffusione consiste nel dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione.
La Suprema Corte ha, quindi, evidenziato che “il trattamento dei dati personali, ammesso di norma in presenza del consenso dell'interessato, può essere eseguito anche in assenza di tale consenso, se, come statuisce l'art. 24, comma 1, lett. f), è volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per svolgere le investigazioni difensive previste dalla L. n. 397 del 2000, e ciò a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”, con l’ulteriore precisazione che tale deroga “rende l'attività, se svolta nel rispetto delle condizioni ivi previste, di per sè già a monte lecita”.
Pertanto, laddove il trattamento dei dati personali, operato in assenza del consenso del titolare dei dati medesimi, sia strettamente strumentale alla tutela giurisdizionale di un diritto da parte di chi effettua tale trattamento, è insussistente il presupposto delle condotte incriminatrici previste dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, comma 1, in considerazione “dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio”.
In particolare, la Corte di Cassazione ha precisato “che la pertinenza dell'utilizzo rispetto alla tesi difensiva va verificata nei suoi termini astratti e con riguardo alla sua oggettiva inerenza alla finalità di addurre elementi atti a sostenerla e non alla sua concreta idoneità a provare la tesi stessa o avendo riguardo alla ammissibilità e rilevanza dello specifico mezzo istruttorio”, fermo restando che “il diritto di difesa non va considerato limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata”.
Nella fattispecie esaminata, la Corte territoriale ha rilevato che il dipendente aveva adottato tutte le dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni effettuate all'insaputa dei soggetti coinvolti e, quindi, ha ritenuto che il consenso di questi ultimi non fosse richiesto, trattandosi di far valere o di difendere un diritto in sede giudiziaria.
In particolare, è emerso che “la condotta era stata posta in essere dal dipendente per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari non proprio cristalline e per precostituirsi un mezzo di prova visto che diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile situazione di non avere strumenti per tutelare la propria posizione ritenuta pregiudicata dalla condotta altrui. Il tutto in un contesto caratterizzato da un conflitto tra il C. ed i colleghi di rango più elevato e da inascoltate recriminazioni relative a disorganizzazioni lavorative asseritamente alla base delle indicate contestazioni disciplinari …. in cui il reperimento delle varie fonti di prova poteva risultare particolarmente difficile a causa di eventuali possibili sacche di omertà come era dato apprezzare da quanto emerso in sede di istruttoria”.
All’esito di quanto accertato in sede giudiziale, dunque, “si trattava di una condotta legittima, pertinente alla tesi difensiva del lavoratore e non eccedente le sue finalità, che come tale non poteva in alcun modo integrare non solo l'illecito penale ma anche quello disciplinare”.
In particolare, la Suprema Corte, confermando l’illegittimità del licenziamento, ha precisato che il clima di tensione e di sospetti, venutosi a creare tra gli ignari colleghi dopo la rivelazione delle registrazioni, avrebbe potuto assumere rilevanza in una prospettiva del tutto diversa, ovvero in termini di “obiettiva incompatibilità del dipendente con l’ambiente di lavoro, se tale da rendere insostenibile la situazione incidendo negativamente sulla stessa organizzazione del lavoro e sul regolare funzionamento dell’attività”.
Alla luce di quanto sopra esposto, appare chiaro che, al fine di verificare la sussistenza di un’ipotesi derogatoria alla regola generale (necessità del consenso al trattamento dei dati), il giudicante deve operare una valutazione delle circostanze del caso concreto, non essendo sufficiente, da parte del dipendente, affermare che tale trattamento (rectius, la registrazioni di conversazioni o le riprese video effettuate all’insaputa dei colleghi e/o dei superiori) sarebbe finalizzato all’esercizio del suo diritto di difesa.
Infatti, con la coeva sentenza n. 11999 del 16 maggio 2018, la Suprema Corte ha confermato che, in generale, è illegittima la condotta del dipendente il quale, all’insaputa dei colleghi, registri conversazioni e/o video, in quanto ciò costituisce una grave violazione del diritto alla riservatezza (confermando la legittimità, nella fattispecie, del licenziamento intimato al dipendente).
Nel caso esaminato dalla citata sentenza, un dipendente aveva registrato una conversazione telefonica tra il superiore gerarchico ed altro collega di lavoro, nonché altre conversazioni avvenute nel corso di una riunione aziendale, sostenendo che tali registrazioni sarebbero state utilizzate per sporgere una querela avente ad oggetto un comportamento mobbizzante attuato nei suoi confronti, comportamento di cui, tuttavia, non erano state fornite adeguate allegazioni.
Nello stesso senso, peraltro, la Suprema Corte, con sentenza n. 26143 del 21 novembre 2013, ha ritenuto legittimo il licenziamento di un medico, a seguito di una grave situazione di sfiducia e di sospetto che si era venuta a creare all'interno della “equipe” medica, dovuta al fatto che il medesimo aveva registrato brani di conversazione di numerosi colleghi, a loro insaputa, in violazione del diritto di riservatezza, per utilizzarli strumentalmente in sede giudiziaria, al fine di supportare una denunzia di "mobbing" nei confronti del primario, rispetto alla quale il pubblico ministero aveva richiesto l'archiviazione.
Nel caso di specie, il licenziamento era stato intimato non solo perché il medico aveva registrato brani di conversazione all’insaputa dei colleghi, ma anche in considerazione del fatto che tale comportamento aveva determinato un clima di forte sfiducia e di mancanza di collaborazione tra gli stessi colleghi, indispensabile per assicurare il miglior livello di assistenza e di qualità del servizio.