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Decreto Dignità: riflessioni su autonomia e subordinazione

Di Stefano Trifirò e Federico Manfredi

Il dibattito, in questi mesi, è aperto sulla stabilità del lavoro, cui il decreto Dignità intende puntare, a fronte della flessibilità che, invece, richiedono le imprese.

Al riguardo, negli interventi legislativi degli ultimi 15 anni che hanno inciso sulla normativa di settore, il lavoro autonomo viene visto con grande sfavore. I rapporti di collaborazione si presumono truffaldini e vengono riqualificati sulla base di indici rivelatori, a prescindere dalle modalità con cui si svolgono in concreto. I rapporti di lavoro subordinato sono stati, invece, incentivati sia attraverso sgravi contributivi, sia indebolendo le tutele del lavoratore in ipotesi di licenziamento.

Il risultato di questo sistema è contraddittorio poiché, costringendo nelle maglie della subordinazione anche rapporti di lavoro che le parti stesse preferirebbero più dinamici o svincolati da forme rigide, la struttura organizzativa delle imprese è ingessata. D’altro canto, una volta ricondotto al lavoro dipendente qualunque tipo di rapporto all'interno dell'impresa, si è deciso di renderlo precario.

Eppure non si giungerebbe alle medesime conclusioni leggendo l’art. 1 della Costituzione, che fa riferimento a qualsiasi tipologia di lavoro: non solo quello subordinato, ma anche quello imprenditoriale, professionale e autonomo.

Assurge, quindi, a precetto costituzionale la pari dignità di tutte le forme di lavoro. Sicché, avendo riguardo agli effetti di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina del rapporto di lavoro, occorre porre in evidenza che “da una serie di norme della Costituzione si vede che il contratto di lavoro può essere costruito come un contratto di natura associativa in cui il datore di lavoro e i prestatori perseguono, non l'identico interesse, si capisce, ma non finalità necessariamente contrapposte, bensì un fine comune che si concreta nell'interesse dell'impresa; quando si ponga mente a tutto ciò, allora è possibile concepire come il recesso in tanto sia dato, in quanto è in funzione dell'interesse dell'impresa” (C. Grassetti, in “Atti del Convegno su La tutela delle Libertà dei Rapporti di Lavoro”,).

Dunque, occorrerebbe rifondare il Diritto del Lavoro abbandonando la cultura del rapporto di lavoro subordinato quale unica forma garantista e lasciare spazio al lavoro autonomo anche nell’ambito dell’impresa, secondo un sistema più complesso ove gli interessi delle parti non sono de jure contrapposti, bensì, convergenti verso il fine comune dato dall'interesse dell'impresa. Fine, questo, che, si badi, è terzo rispetto tanto al lavoratore quanto al datore, e diviene parametro di legittimità e buona fede per i provvedimenti adottati da quest’ultimo.

Laddove l’impresa deve essere intesa come una comunità di lavoro nell’ambito di diritti e doveri reciproci, orientati verso il fine comune dell’interesse dell’impresa, che il Legislatore non ha definito, mentre ha definito l’azienda quale complesso di beni organizzato dall’imprenditore per il suo esercizio.

Ed, invero, appare naturale concludere che l’Impresa del futuro, verosimilmente sarà caratterizzata dalla prevalenza del lavoro autonomo all’interno dell’impresa, ma con ciò rimarrà comunque fermo che il rapporto di lavoro - sia autonomo o subordinato - non possa risolversi arbitrariamente, ma venga riconosciuto legittimo solo se esercitato in funzione dell’interesse di quella comunità di lavoro che è l’impresa, e dall’altro che il contratto di lavoro – individuale o collettivo pur nella didattica delle posizioni -  venga costruito come un contratto in cui il datore di lavoro e i prestatori perseguono un fine comune che si concreta nell'interesse dell'impresa.

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