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T&P Magazine

Covid-19: una prova per le fonti del diritto (e non solo)

Di Salvatore Trifirò e Umberto Leone


La pandemia che ha interessato e tuttora interessa – tra gli altri – anche il nostro Paese può essere definita un’esperienza senza precedenti; l’espressione, poi, diventa certamente calzante se si sceglie di prendere come riferimento il periodo storico che va dal secondo Dopoguerra ai giorni nostri.

L’epidemia ha interessato ogni ambito: quello sociale ed umano, caratterizzato da un imponente numero di decessi e dal repentino mutamento di svariati comportamenti ed abitudini, delle cui conseguenze si sarà probabilmente in grado di prendere coscienza solo nei mesi e negli anni a venire; quello economico, connotato dalle difficoltà delle imprese, dagli ammortizzatori sociali, dal vivo dibattito sulle misure assistenziali; non da ultimo quello legale-giuridico, che ha visto il diritto svolgere il proprio ruolo fisiologico, che si può definire “reattivo-creativo”: reattivo in quanto destinato all’eterno inseguimento della realtà fenomenica; creativo poiché chiamato a far fronte, ora per il futuro, alle contingenze più disparate con gli strumenti ed i rimedi reputati di volta in volta più idonei.

In particolare – nella misura che qui interessa – l’emergenza è percepibile dal massiccio ricorso ai celeberrimi decreti-leggi e decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (termini ormai entrati a far parte anche della quotidianità di chi non “mastica” di diritto). Quanto ai primi, si può dire (con un velo di amara ironia) che mai fu fatto di tale strumento utilizzo più coerente e rispettoso dei requisiti di necessità ed urgenza imposti dalla Costituzione. Quanto ai secondi, è impensabile cimentarsi nella ricostruzione della normativa emergenziale senza confrontarsi con tali atti amministrativi, protagonisti – non senza polemiche – della fase di attuazione delle norme di fonte primaria.

Il virus ha imposto un adeguamento, in molti casi una vera e propria riprogrammazione, degli schemi basilari del vivere comune; tra questi merita senz’altro una menzione particolare il lavoro. Se, per un verso, è emersa l’esigenza di ripensare, ove possibile, il lavoro a distanza, per altro verso è stato necessario affrontare con adeguate misure lo svolgersi dell’attività lavorativa in presenza. In altre parole, la normativa sulla sicurezza sul posto di lavoro ha dovuto confrontarsi con questa nuova, specifica minaccia, per cui si è reso indispensabile intervenire con regole ad hoc.

La norma più interessante nel prolifico panorama delle fonti in materia di coronavirus è senz’altro l’art. 29-bis del D.L. 8 aprile 2020, n. 23, aggiunto in sede di conversione del decreto a mezzo della l. 5 giugno 2020, n. 40.

Questo ha previsto che «Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’art. 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.».

Il meccanismo giuridico adottato è evidente: l’art. 29-bis D.L. 23/2020 non fissa le regole per svolgere in sicurezza l’attività lavorativa in tempo di Covid, ma rimanda la loro determinazione al Protocollo 24 aprile 2020 (o agli altri protocolli stipulati a livello regionale o nazionale), recependo con rinvio mobile anche le loro successive modifiche. La norma, in altre parole, si “limita” ad estendere, con efficacia erga omnes, le regole di comportamento altrove individuate.

Prima di proseguire nella trattazione dell’art. 29-bis D.L. 23/2020, è opportuno precisare che il Protocollo 24 aprile 2020 è richiamato anche nei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, da ultimo quello del 3 dicembre 2020, art. 4. In esso (che ripropone una formulazione già presente nei precedenti DPCM) si impone alle attività produttive industriali e commerciali il rispetto del suddetto Protocollo (e di altri protocolli individuati per settore), in specificazione dell’art. 1, comma 14 D.L. 16 maggio 2020, n. 33, convertito con l. 14 luglio 2020, n. 33 (norma peraltro anteriore all’art. 29-bis, in quanto questo non trovava diritto di cittadinanza nell’originaria formulazione del D.L. 8 aprile 2020, n. 23).

Come accennato, l’art. 29-bis D.L. 8 aprile 2020, n. 23 effettua un esplicito richiamo all’art. 2087 cod. civ., sancendo che gli obblighi del datore di lavoro ivi contenuti si intendono adempiuti al rispetto delle regole di sicurezza contenute nei protocolli.

Prima di trattare il rapporto tra le due norme, è però opportuno effettuare una breve disamina di quella codicistica.


Art. 2087 cod. civ.: una responsabilità formalmente non oggettiva

«L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Così il legislatore del 1942 ha inteso regolare obblighi (e conseguenti responsabilità) del datore di lavoro; ed è sull’impianto di tale norma che si sono poi sviluppate, nei decenni, la normativa speciale e la giurisprudenza in tema di sicurezza sul lavoro.

La formulazione ampia dell’obbligo datoriale, unitamente alla collocazione sistematica della norma, inserita tra i primi articoli della disciplina codicistica riservata all’impresa in generale, conferisce all’art. 2087 cod. civ. una portata estremamente generale. Il dovere dell’imprenditore consiste nel porre in essere un numero imprecisato ed indefinito – sia sotto il profilo quantitativo sia, parzialmente, sotto quello qualitativo – di «misure» finalizzate alla piena tutela del lavoratore, tanto dal punto di vista fisico quanto dal punto di vista psicologico/morale.

La natura giuridica della norma è stata a lungo dibattuta: in particolare gli interpreti si sono interrogati sulla riconducibilità dell’art. 2087 cod. civ. all’ambito della responsabilità contrattuale od extracontrattuale.

Nonostante sia pacifico il carattere contrattuale della norma in esame, essa rimane un ottimo esempio di come la medesima fattispecie possa afferire astrattamente all’uno o all’altro alveo. Come noto[1], la responsabilità del datore di lavoro trova origine all’interno di un rapporto contrattuale, ma, contemporaneamente, il fatto da cui scaturisce il danno lede interessi giuridici che non possono dirsi strettamente legati alla relazione sinallagmatica delle parti (data dallo scambio prestazione contro retribuzione). In ogni caso, come anticipato, la giurisprudenza fa rientrare pacificamente la violazione del dovere di cui all’art. 2087 cod. civ. nell’ambito della responsabilità contrattuale, con tutto ciò che ne deriva in termini di onere della prova ex art. 1218 cod. civ, e fermo restando il diritto del lavoratore di agire alternativamente, qualora abbia subito un danno alla propria integrità psico-fisica, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.

A prescindere dalla natura giuridica dell’obbligo e della responsabilità che discende dalla sua violazione, ciò che maggiormente interessa ai fini della questione di che trattasi è la portata normativa del dispositivo. In altre parole, la domanda a cui è necessario rispondere è la seguente: posto che l’ordinamento attribuisce al datore di lavoro l’obbligo di tutelare la sicurezza e la salute del dipendente sul luogo di lavoro ed in occasione di questo, fino a che punto tale responsabilità sussiste? A fronte di un infortunio occorso al lavoratore, il datore di lavoro è responsabile sempre e comunque o, al contrario, tale responsabilità viene meno qualora egli abbia adottato ogni misura necessaria?

La risposta è articolata e non può non fare i conti con l’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 2087 cod. civ. Si inizi evidenziando il tenore letterale della norma. A ben vedere, l’obbligo che grava sul datore di lavoro non è quello di tutelare l’integrità fisica e psichica del lavoratore: questo è semmai il risultato. Risultato cui si perviene – e in ciò consiste la condotta imposta dal legislatore in capo all’imprenditore – tramite l’adozione delle misure «necessarie» in tal senso. Di talché (e sempre a stretto rigore letterale) a fronte della diligente ed accurata predisposizione di queste misure, l’infortunio comunque occorso al lavoratore non sarebbe imputabile alla responsabilità datoriale. Per usare altre parole, la norma non configura una responsabilità oggettiva, in cui l’imprenditore risponde sempre e comunque del danno occorso al lavoratore, a prescindere da una valutazione soggettiva del suo operato. Per evincerlo basta confrontare la formulazione dell’art. 2087 cod. civ. con altre norme, tipicamente ricondotte alla categoria della responsabilità oggettiva: il preponente o il proprietario di edificio in rovina non rispondono per un comportamento; essi rispondono «per i danni», senza che sia individuata una specifica condotta da tenere. Se il legislatore avesse voluto instaurare una simile responsabilità in capo al datore di lavoro, avrebbe potuto formulare la norma nei medesimi termini.

Anche la giurisprudenza, peraltro, esclude la sussistenza di una mera responsabilità oggettiva in capo al datore di lavoro: «(…) tuttavia la responsabilità datoriale non è suscettibile di essere ampliata fino al punto da comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell'integrità psico-fisica dei dipendenti (e di correlativo pericolo). L'art. 2087 c.c. non configura infatti un'ipotesi di responsabilità oggettiva essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore»[2].

La domanda però permane, se si vuole sotto altra forma: se il codice stabilisce che il datore di lavoro debba adottare le misure «necessarie», quali misure sono «necessarie»? E ancora, l’indicazione del legislatore è chiara: le misure necessarie vanno individuate secondo «la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica», ma a chi spetta tale individuazione?

La scelta del legislatore di non configurare in questa sede un elenco tassativo di misure ma, al contrario, di utilizzare un criterio suscettibile di interpretazione, quale la “necessarietà”, ha conferito all’art. 2087 cod. civ. il ruolo di norma aperta e “di chiusura” rispetto al tema della sicurezza sul lavoro. Il datore di lavoro sarà quindi tenuto ad adottare non solo tutte le specifiche misure previste nelle leggi speciali (prime fra tutte quelle di cui al Testo Unico per la Sicurezza sul Lavoro), ma anche tutte quelle non espressamente individuate, ma individuabili sulla scorta della migliore tecnica ed esperienza (si parla a proposito di misure cd. innominate).

Da qui sorge il problema dell’ampio margine di operatività dell’art. 2087 cod. civ., dal momento che il datore di lavoro non ha necessariamente un novero predeterminato di misure da cui attingere, il puntuale rispetto delle quali egli possa invocare per liberarsi dalla responsabilità dell’infortunio del lavoratore.

Si può, a questo proposito, far riferimento al tema dell’amianto; in più occasioni la Corte di Cassazione ha ritenuto responsabile il datore per la morte di lavoratori causata da mesotelioma anche a fronte di rapporti di lavoro intercorsi ben prima della messa al bando del suddetto materiale da parte del legislatore, avvenuta nel 1992.

I giudici di legittimità hanno infatti statuito che la pericolosità di tale sostanza era nota anche anteriormente all’adozione di una specifica normativa a riguardo; e questo non solo sulla scorta della letteratura scientifica, ma anche di leggi in vigore durante l’arco temporale in cui si era svolto il rapporto di lavoro. Tali norme, a ben vedere, trattavano la materia in maniera estremamente settoriale (introducendo specifiche cautele in materia di lavoro di donne e minori[3], non interessanti i lavoratori deceduti) o, al contrario, estremamente generica (vedasi il riconoscimento dell’asbestosi come malattia professionale[4]). In altre parole, pur non essendo proibito l’uso dell’amianto, l’astratta consapevolezza del fatto che si trattava di materiale pericoloso avrebbe dovuto spingere il datore di lavoro ad adottare (dal legislatore non precisate, rectius innominate) misure idonee ad evitare l’insorgere della malattia nel lavoratore.

Un approccio di questo tipo ha l’indubbio merito di conferire un’ampia tutela al lavoratore, che certo non ha le medesime possibilità del datore di lavoro di conoscere gli sviluppi scientifici e legislativi dell’elaborazione in materia di sicurezza sul lavoro, né la medesima forza contrattuale per far sì che specifiche misure vengano adottate. D’altro canto però, la formulazione ampia dell’art. 2087 cod. civ. e la relativa interpretazione estensiva della giurisprudenza spostano di fatto sull’imprenditorie il compito – assolutamente non agevole – di individuare le concrete misure da adottare sul luogo di lavoro, dovendo questi precedere (anche di anni, come in questo caso) eventuali prese di posizione del legislatore.


III. - L’art. 29-bis D.L. 8 aprile 2020, n. 23: un’inversione di tendenza?

Nel quadro così delineato si innesta l’art. 29-bis D.L. 8 aprile 2020, n. 23. Con una chiara statuizione legislativa, viene specificato che il rispetto dei protocolli summenzionati faccia ritenere adempiuto l’obbligo di cui all’art. 2087 cod. civ. Il Parlamento, in sede di conversione, ha quindi “riempito” contenutisticamente la norma codicistica, individuando in modo specifico le misure da adottare per prevenire il contagio da Covid-19 sul posto di lavoro.

La prima domanda da porsi a riguardo è la seguente: con tale statuizione il legislatore ha riservato un margine di operatività all’art. 2087 cod. civ.? Una volta che il datore di lavoro si sia attenuto alle misure stabilite dai protocolli (ed alle ulteriori norme speciali sopra richiamate), deve altresì adottare ogni misura necessaria (ed innominata), come da consueta operatività della norma codicistica? La risposta non può che essere negativa. Come osservato in dottrina[5], dal momento che l’art. 2087 cod. civ. è norma di chiusura in tema di sicurezza sul lavoro, se il legislatore non avesse inteso sovvertire il suo ruolo residuale rispetto a normative speciali (come lo sono, appunto, gli articoli dei decreti legge e dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri che richiamano i protocolli), avrebbe potuto semplicemente ometterne la menzione da parte dell’art. 29-bis D.L. 23/2020. Se così fosse avvenuto, i protocolli sarebbero comunque stati osservati e l’art. 2087, nel silenzio della legge, avrebbe continuato ad operare in via residuale[6].

La seconda domanda da porsi, quindi, è così riassumibile: può l’art. 29-bis introdurre un principio generale, in forza del quale, a seguito di un intervento legislativo che fissi in modo tassativo ed in relazione ad un dato settore produttivo una serie di misure di sicurezza sul lavoro, il rispetto di tale normativa faccia venir meno la responsabilità datoriale anche ai sensi dell’art. 2087 cod. civ.?

Un’interpretazione di questo tipo sembra invero assai improbabile, in quanto ancora una volta (ed utilizzando lo stesso percorso logico appena esposto) il dato letterale sembra contraddire tale ipotesi. Se l’introduzione di un elenco tassativo di precauzioni fosse di norma idoneo ad escludere una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ., non avrebbe avuto senso l’espresso richiamo di quest’ultimo nell’art. 29-bis D.L. 23/2020. E ancora, si richiama quanto sopra affermato in materia di amianto: la norma codicistica è tradizionalmente utilizzata per estendere la responsabilità del datore di lavoro per la mancata adozione di tutte quelle (non nominate) misure ritenute necessarie per la tutela del lavoratore. L’espressa menzione degli effetti liberatori ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., scaturenti dell’osservanza delle misure di cui ai protocolli, non fa che ribadire la natura eccezionale dell’art. 29-bis rispetto alla normale operatività dell’art. 2087 cod. civ. Carattere eccezionale che è tra l’altro confermato da una lettura sistematica del primo, il quale si colloca in una legislazione la quale, oltre che per la fonte di produzione adottata, è contenutisticamente e contestualmente emergenziale.

Se gli interpreti applicheranno nel senso sopra esposto l’art. 29-bis D.L. 23/2020, ci saranno degli indubbi vantaggi in tema di certezza del diritto. Il datore di lavoro avrà un preciso riferimento legislativo per individuare i propri doveri e il giudice potrà con maggior semplicità verificare i presupposti per statuire circa la presenza o l’assenza di responsabilità a suo carico.

Chissà, peraltro, che il modello “Covid-19” non possa rivelarsi un positivo esperimento ripetibile dal legislatore del futuro: un serrato dialogo tra Governo e Parti sociali, che consente un’elaborazione di misure di sicurezza adeguate al contesto produttivo ed aziendale; l’elevamento di tale sistema di regole a norma di legge, che gli conferisce applicabilità erga omnes; infine una – per certi versi – coraggiosa scelta dell’ordinamento di escludere ulteriori profili di responsabilità per il datore di lavoro, che potrà affidarsi al legislatore per lo svolgimento del compito principale e primigenio di quest’ultimo: distinguere il lecito dall’illecito.

 

[1] C. Castronovo, La responsabilità civile, Milano, Giuffré Editore, 2018, pp. 646-647

[2] Cass. Civ., sent. 29 marzo 2019, n. 8911, in Giustizia Civile Massimario 2019

[3] Cfr. art. 29 R.D. 14 giugno 1909, n. 442

[4] Cfr. artt. 1 e 4 l. 12 aprile 1943, n. 455

[5] A. Maresca, Il rischio da contagio da COVID-19 nei luoghi di lavoro: obblighi di sicurezza e art. 2087 c.c. (prime osservazioni sull’art. 29-bis della l. n. 40/2020), in Diritto della Sicurezza sul Lavoro, 2020 n. 2, www.ojs.uniurb.it

[6] Si veda anche la circolare INAIL 20 maggio 2020, n. 22, anteriore all’introduzione dell’art. 29-bis D.L. 8 aprile 2020, n. 23: «La responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto legge 16 maggio 2020, n.33».

 

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