Unificazione della fase sommaria e della fase a cognizione piena nel Rito Fornero. E’ ammissibile l’impugnazione in appello del provvedimento decisorio.
A cura di Antonio Cazzella
Con due recenti sentenze (n. 15976 del 27 giugno 2017 e n. 8467 del 31 marzo 2017) la Corte di Cassazione ha affermato che è ammissibile l’impugnazione in appello del provvedimento decisorio pronunciato all’esito del procedimento ex art. 1, comma 49, della legge n. 92/2012, laddove tale provvedimento sia formalmente e sostanzialmente qualificabile come “sentenza” ed il giudice abbia omesso la fase sommaria del giudizio, attuando un procedimento a cognizione piena.
La Suprema Corte ha, preliminarmente, ricordato il proprio consolidato orientamento, secondo cui - al fine di stabilire se un provvedimento abbia natura di ordinanza o di sentenza – occorre avere riguardo non già alla forma adottata ma al suo contenuto, alla stregua del c.d. principio di prevalenza della sostanza sulla forma.
Nelle fattispecie esaminate, peraltro, la Suprema Corte ha rilevato che il provvedimento non solo recava la veste formale di sentenza, ma ne possedeva anche gli elementi sostanziali, avendo deciso totalmente il merito delle questioni devolute, all’esito di una cognizione che, in considerazione dell’iter procedimentale adottato, non poteva ritenersi sommaria.
In entrambe le fattispecie, infatti, il giudice aveva sentito i testimoni ed aveva, altresì, concesso un termine per note difensive, come espressamente consentito dall’art. 1, comma 57, della legge n. 92/2012.
La Suprema Corte ha, altresì, ricordato che la fase sommaria e la fase di cognizione piena previste dall’art. 1 della legge n. 92/2012 costituiscono un unico giudizio, la cui cognizione può essere devoluta anche allo stesso giudice, come già stabilito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 78 del 20 maggio 2015.
La soluzione della questione nei termini sopra evidenziati, secondo la Suprema Corte, risulta peraltro coerente con i principi ispiratori della riforma introdotta con la legge n. 92/2012, volta alla riduzione dei tempi necessari alle decisioni sulla legittimità dei licenziamenti, e non vulnera il diritto delle parti, costituzionalmente protetto, all’esercizio del diritto di difesa, che viene garantito dallo svolgimento del procedimento mediante cognizione piena.
Le conseguenze di tale interpretazione sono rilevanti, in quanto implicano il potere discrezionale del giudice di unificare le due fasi del procedimento, verosimilmente anche senza il consenso delle parti.
In tale ottica, si deve considerare che l’unificazione delle due fasi potrebbe, in ultima analisi, determinare anche una limitazione del diritto di difesa.
Infatti, con sentenza n. 19674 del 18 settembre 2014 le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno affermato che la fase di opposizione non è un giudizio di impugnazione e, sulla base di tale interpretazione, anche più recentemente, è stato precisato che “l’opposizione può investire nuovi profili soggettivi ed oggettivi, fra i quali le eccezioni in senso stretto – come quella di decadenza – non sollevata dall’interessato durante la fase sommaria … giacchè essa non vale come impugnazione, ossia come istanza di revisione del precedente giudizio, inidonea ad introdurre nuovi temi di disputa” (Cass. 11 dicembre 2015, n. 25046).
Nel giudizio di opposizione, dunque, non solo possono essere proposte nuove eccezioni, ma è anche possibile ampliare ed integrare i mezzi di prova.
Pertanto, considerato che l’art. 1, comma 59, della legge n. 92/2012, sancisce il divieto di nuovi mezzi di prova e di nuovi documenti nel giudizio di appello (salva l’ipotesi in cui la Corte li ritenga indispensabili ai fini della decisione o la parte dimostri di non aver potuto proporli in primo grado per causa ad essa non imputabile), risulta evidente che, laddove la fase sommaria e la fase a cognizione piena vengano unificate, anche senza il consenso delle parti, il relativo provvedimento decisorio potrebbe essere impugnato solo con il reclamo in appello e, dunque, risulterebbe preclusa la possibilità di chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova e di produrre nuovi documenti se non nelle ipotesi stabilite dal citato art. 1, comma 59.