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Un caso di applicazione del “jobs act”, come riformato dalla Corte Costituzionale, ad una fattispecie di licenziamento collettivo.

Commento di Tommaso Targa alla sentenza del Tribunale di Napoli 26 febbraio 2019 n. 1366

La sentenza in commento ha applicato l’art. 3 co. 1 del d.lgs. 23/2015 - la norma del cosiddetto “jobs act” relativa alla quantificazione dell’indennità secondo il regime delle “tutele crescenti” - ad una fattispecie di licenziamento collettivo.

Il caso affrontato riguarda un lavoratore licenziato per ragioni oggettive, contestualmente ad altri suoi 17 colleghi. Il lavoratore ha lamentato che il licenziamento avrebbe dovuto essere preceduto dalla procedura di licenziamento collettivo di cui alla l. 223/1991, con conseguente preventiva consultazione sindacale e applicazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5 della suddetta legge. Al contrario, l’azienda lo aveva “trattato” come un licenziamento individuale plurimo, andando ben oltre la soglia numerica prevista ex lege (sappiamo, infatti, che la procedura di licenziamento collettivo è obbligatoria nel caso in cui l’azienda ponga in essere una riduzione del personale che comporti oltre 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni).

La sentenza ha accolto il ricorso del lavoratore, dichiarando illegittimo il licenziamento per violazione dell’art. 24 della l. 223/1991. Ha quindi ritenuto doversi applicare ratione temporis la disciplina delle “tutele crescenti”, tenuto conto che il lavoratore era stato assunto dopo l’entrata in vigore del jobs act. A questo punto, la sentenza ha rilevato che, sul regime sanzionatorio previsto dalla suddetta normativa, sono intervenuti sia il cosiddetto “Decreto Dignità” (d.l. 87/2018 convertito in l. 96/2018) che ha elevato la misura minima e massima dell’indennità, sia la Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 194/2018.  Proprio in relazione a tali interventi, i principi di diritto affermati della sentenza commentata sono meritevoli di attenzione.

In merito al primo aspetto, la sentenza ha escluso che la misura minima e massima dell’indennità applicabile al caso di specie potesse essere determinata tenendo conto della maggiorazione prevista dal “Decreto Dignità”.  Infatti, è vero che tale decreto ha innalzato da 4 a 6 e da 24 a 36 la misura minima e massima dell’indennità; ma è altrettanto vero che esso si applica esclusivamente ai licenziamenti intimati dopo la sua entrata in vigore, e ciò vale a prescindere dal successivo intervento della Corte Costituzionale che ha modificato i criteri di determinazione dell’indennità nell’ambito della forbice tra minimo e massimo.

In merito al secondo aspetto, per l’appunto quello relativo alla determinazione dell’indennità tra minimo e massimo edittale, la sentenza ha preso atto della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 3 del d.lgs. 23/2015, nella parte in cui tale norma prevedeva che la suddetta indennità dovesse essere calcolata tenendo in considerazione esclusivamente l’anzianità aziendale. D’altro canto, nel caso di specie il Tribunale di Napoli ha fatto “rientrare dalla finestra quello che era uscito dalla porta”.

Infatti, nella motivazione della sentenza in commento si legge che, al fine di determinare l’indennità dovuta al lavoratore illegittimamente licenziato, devono essere considerati a) il comportamento datoriale consistente nella completa omissione della procedura di licenziamento collettivo; b) le dimensioni “non ridotte” dell’attività economica svolta dal datore di lavoro, che peraltro è rimasto contumace in giudizio; c) ma anche la breve durata del rapporto di lavoro (un anno). Bilanciando questi aspetti, la sentenza ha ritenuto equo riconoscere al lavoratore un indennizzo pari a 4 mensilità, ossia il minimo edittale: così giungendo allo stesso risultato a cui sarebbe pervenuta anche applicando il regime delle “tutele crescenti” antecedente all’intervento della Corte Costituzionale.

In conclusione, il precedente esaminato dimostra che la dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 3 del d.lgs. 23/2015 - proprio perché essa è stata motivata dalla necessità di lasciare al giudice un margine di valutazione equitativa al fine di determinare in concreto l’indennizzo - consente tuttora al giudice di riconoscere il minimo importo. Ciò si verifica quando, tenendo conto anche dell’anzianità aziendale, insieme ad altri parametri di valutazione, considerati nel loro insieme, tale minimo appare congruo.

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