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Trasferimento del lavoratore: obbligo di motivazione e criteri di scelta

di Antonio Cazzella

Con sentenza n. 19413 del 6 luglio 2021 la Suprema Corte si è nuovamente pronunciata sull’obbligo di motivare il trasferimento del lavoratore e sui criteri di scelta del lavoratore da trasferire.

La fattispecie esaminata riguarda il trasferimento collettivo attuato da un’azienda, che aveva trasferito in altra sede un intero settore; la Corte di merito ha ritenuto illegittimo il trasferimento del lavoratore, in quanto il datore non aveva comunicato i motivi del trasferimento e non aveva altresì indicato le modalità di attuazione dei criteri di scelta (carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative) mutuati dalla legge n. 223 del 1991 (disciplinante il licenziamento collettivo), che - secondo la valutazione della Corte di merito - erano stati recepiti dal contratto collettivo applicato dal datore di lavoro. Inoltre, la Corte di merito ha rilevato che il datore non aveva chiarito le ragioni per cui il lavoratore era stato trasferito con il primo gruppo di dipendenti nel mese di aprile 2014 anziché con il secondo gruppo (nel mese di aprile 2015).

La Suprema Corte ha accolto il gravame dell’azienda, ricordando, in primo luogo, che il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, legittimanti il trasferimento del lavoratore ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., deve essere diretto ad accertare la corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell’impresa e, trovando un preciso limite nel principio di libertà dell’iniziativa economica privata (garantita dall’art. 41 Cost.), non può essere ampliato al merito della scelta operata dall’imprenditore, che non deve peraltro presentare necessariamente i caratteri dell’inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle ragionevoli scelte adottabili sul piano tecnico, organizzativo e produttivo.

Alla luce di tali consolidati principi, la Corte di Cassazione ha precisato che il controllo giudiziale rimane, dunque, circoscritto all’accertamento del nesso di causalità tra il provvedimento di trasferimento e le ragioni poste a fondamento della scelta imprenditoriale, fermo restando che il datore di lavoro, in applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede (art. 1375 cod. civ.), qualora possa far fronte a dette ragioni avvalendosi di differenti soluzioni organizzative, per lui paritarie, è tenuto a preferire quella meno gravosa per il dipendente, soprattutto nel caso in cui questi deduca e dimostri la sussistenza di serie ragioni familiari ostative al trasferimento.

Tanto premesso, la Suprema Corte ha ricordato che “la comunicazione del trasferimento del lavoratore, come pure la richiesta dei motivi e la relativa risposta, in difetto di una diversa previsione, sono assoggettate al principio generale di libertà delle forme”.

Quanto alla motivazione del trasferimento, è stato evidenziato che il provvedimento “non deve necessariamente contenere l’indicazione dei motivi, né il datore di lavoro ha l’obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda …, salvo che sia contestata la legittimità del trasferimento, avendo in tal caso il datore di lavoro l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e non potendo limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte”, fermo restando che il controllo giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento datoriale deve comunque effettuarsi anche alla luce dei principi generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ..

La Suprema Corte ha quindi accolto il gravame proposto dal datore di lavoro, rilevando che la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto insussistenti le ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificavano il trasferimento senza consentire alla società di fornirne la prova (ritualmente richiesta) di tali ragioni e statuendo, quindi, l’illegittimità del provvedimento sulla base della violazione di regole procedurali dettate per altre fattispecie (ovvero, la legge n. 223 del 1991 in materia di licenziamenti collettivi), peraltro non ricavabili, in alcun modo, dal contratto collettivo applicato.


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