La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18004/19 del 4 luglio scorso, si è pronunciata su un tema da tempo molto dibattuto e che ha fatto sorgere nella giurisprudenza di merito contrapposti orientamenti interpretativi.
In particolare, la pronuncia segna un arresto importante nell’orientamento maggioritario seguito sino ad oggi dalle Corti di Appello.
La questione su cui i giudici di piazza Cavour si sono pronunciati concerne l’applicabilità o meno del termine decadenziale biennale, previsto dall’art. 29, 2° comma, del D. Lgs. 276/2003, all’azione recuperatoria intrapresa dall’INPS nei confronti del committente/appaltatore, in relazione al mancato o inesatto pagamento dei contributi da parte dell’appaltatore/subappaltatore.
La norma, oggetto di interpretazione, testualmente dispone che: “In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento”.
L’art. 29 del D. Lgs. 276/2003 ha introdotto il regime di solidarietà tra il committente, l’appaltatore e l’eventuale subappaltatore, in caso di appalto di opere o di servizi, sia per quanto riguarda le retribuzioni da corrispondere, sia per quanto riguarda i contributi previdenziali ed i premi assicurativi dovuti.
In particolare, la solidarietà riguarda tutto il credito retributivo e contributivo maturato con riguardo al periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall’appalto. Inoltre, a differenza di quanto accade ai sensi dell’art. 1676 c.c. – che disciplina l’azione diretta che i dipendenti dell’appaltatore hanno nei confronti del committente per conseguire quanto è loro dovuto – detta solidarietà non è contenuta nei limiti del debito che il committente ha verso l’appaltatore al momento della domanda. Va detto però che, in relazione all’aspetto contributivo, il committente risponde soltanto del capitale, essendo espressamente esclusa la possibilità per l’Inps chiedere nei suoi confronti anche le sanzioni amministrative per omesso o ritardato pagamento.
La ratio legis è quella di garantire il pagamento del corrispettivo e dei relativi oneri previdenziali dovuti, prevedendo la possibilità di esperire azione diretta nei confronti di un soggetto terzo, il committente/appaltatore, che ha beneficiato della prestazione lavorativa nell’ambito della quale tale credito è maturato.
Trattasi di una deroga generale al principio della responsabilità diretta da parte del datore di lavoro per il mancato pagamento delle spettanze, a maggior tutela del lavoratore; una norma, pertanto, eccezionale, che prevede limiti precisi, così sintetizzabili:
- esclusione dall’ambito applicativo della norma del committente persona fisica che non esercita attività di impresa o professionale;
- esistenza di un contratto di appalto tra appaltatore/datore di lavoro e committente;
- adibizione del lavoratore ad attività lavorative inerenti all’esecuzione dell’appalto;
- maturazione, da parte del lavoratore, di un credito retributivo/contributivo in diretta conseguenza dell’esecuzione dell’appalto;
- rispetto del termine decadenziale di due anni dalla cessazione del contratto di appalto per la richiesta di condanna del committente al pagamento del dovuto.
L’individuazione dei soggetti creditori, come si può notare, non è compiuta dalla norma ma è conseguenza della successiva interpretazione delle posizioni sostanziali identificate dall’articolo in questione.
Senz’altro la norma in commento si riferisce sia all’azione del lavoratore diretta ad ottenere il pagamento delle retribuzioni maturate nel periodo di assegnazione all’appalto, sia quella dell’Inps per il versamento dei contributi maturati a favore del lavoratore nel medesimo periodo.
Il punto discusso, come si diceva, riguarda proprio quest’ultimo profilo; ossia l’applicabilità o meno del termine biennale all’azione intrapresa dall’INPS, in quanto aspetto non espresso.
Nella giurisprudenza di merito, l’orientamento prevalente che si era formato riteneva opponibile anche all’Inps, per l’esercizio della propria azione relativa al credito previdenziale, il termine di decadenza di due anni dalla cessazione dell’appalto.
La Suprema Corte, a riforma di una sentenza della Corte di Appello di Torino che aveva aderito al suddetto orientamento giurisprudenziale di merito maggioritario e consolidato, conferma il rafforzamento della garanzia dei lavoratori, prendendo le mosse dal principio secondo cui l’obbligazione contributiva, ben diversa da quella retributiva, ha una sua piena e totale autonomia, in quanto nascente dalla legge, essa, infatti, “ha natura indisponibile, e va commisurata alla retribuzione che al lavoratore spetterebbe sulla base della contrattazione collettiva vigente (c.d. “minimo contributivo”)”.
La peculiarità dell’obbligazione contributiva, aggiungono gli Ermellini, “fa ritenere non coerente con tale assetto l'interpretazione che comporterebbe la possibilità, addirittura prevista implicitamente dalla legge come effetto fisiologico, che alla corresponsione di una retribuzione - a seguito dell'azione tempestivamente proposta dal lavoratore- non possa seguire il soddisfacimento anche dall'obbligo contributivo solo perché l'ente previdenziale non ha azionato la propria pretesa nel termine di due anni dalla cessazione dell'appalto. Si spezzerebbe, in altri termini e senza alcuna plausibile ragione logica e giuridica apprezzabile, il nesso stretto tra retribuzione dovuta (in ipotesi addirittura effettivamente erogata) ed adempimento dell'obbligo contributivo, con ciò procurandosi un vulnus nella protezione assicurativa del lavoratore che, invece, l'art. 29 cit. ha voluto potenziare.”
Partendo da tali premesse, la Cassazione ha concluso affermando il principio per cui “Il termine di due anni previsto dall'art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003 non è applicabile all'azione promossa dagli enti previdenziali, soggetti alla sola prescrizione”.
L’interpretazione oggi espressa segue l’orientamento che la stessa Corte aveva elaborato nel tempo in merito all’analogo art. 4 della Legge 1369/1960, da tempo abrogato.
Come si diceva, la sentenza segna un importante arresto nell’orientamento seguito da buona parte delle Corti di merito che, invece, ritenevano che anche l’azione dell’INPS dovesse soggiacere al termine decadenziale di due anni (e non solo a quello prescrizionale, che è più lungo e che, in linea di generale e salva la denuncia del lavoratore, è di cinque anni) stante l’eccezionalità della responsabilità solidale del committente il quale, appunto, non ha rapporti diretti con i lavoratori dell’appaltatore, e che, in base alla ratio della norma, può essere chiamato a rispondere solo in via del tutto straordinaria, quale obbligato secondario, ed entro contenuti limiti di tempo.
Il termine biennale era ritenuto sufficientemente ampio per consentire all’INPS di avviare l'azione recuperatoria presso il committente.
Anche il Ministero del Lavoro con la circolare n. 5 dell’11.2.2011 lo aveva espresso a chiare lettere ed era così allineato alle indicazioni dei giudici di merito.
Pertanto, sulla base della sentenza in commento, il rischio per i committenti di essere chiamati a rispondere per il mancato o inesatto pagamento dei contributi da parte degli appaltatori sembra prolungarsi nel tempo. Va detto però che, come sopra evidenziato, l’azione dell’Inps è comunque soggetta a un termine di prescrizione normalmente quinquennale, salvo il caso in cui il lavoratore interessato presenti denuncia di omessa contribuzione. In tal caso il termine di prescrizione a carico dell’Inps passa da 5 a 10 anni. Resta dubbio se il lavoratore, essendo soggetto al termine biennale di decadenza di cui all’art. 29 del D. Lgs. 276/2003, possa validamente presentare la denuncia di omessa contribuzione anche una volta decorso tale termine. Infatti, se la decadenza prevista dalla norma in commento riguardasse anche la denuncia, ciò comporterebbe per corollario che, decorsi due anni dalla cessazione dell’appalto senza denuncia da parte del lavoratore, l’Inps potrebbe proporre azione nei confronti del committente decorso il termine di prescrizione quinquennale.
Il rischio di azioni da parte dell’Inps anche oltre il termine di decadenza di due anni nei confronti dei committenti indurrà gli stessi, ove non opportunamente tutelati da intese specifiche, a rivedere le garanzie contenute dei contratti di appalto ovvero selezionare imprese maggiormente affidabili, con inevitabili ripercussioni sui costi delle forniture.