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Permesso sindacale: datore e sindacato uniti contro gli abusi

A cura di Federico Manfredi e Chiara Romeo 

Il rapporto di lavoro si regge su un delicato equilibrio tra diritti e doveri del lavoratore e del datore di lavoro, garanzie e tutele a questo riconosciute, ed esigenze dell’impresa che entrano tra loro in bilanciamento. In questo quadro va inserito il particolare caso dei rappresentanti sindacali: i lavoratori nominati dirigenti di RSA/RSU nell’espletamento del loro incarico e delle attività sindacali - che possono esercitare sia all’interno che all’esterno dell’azienda - godono di particolari agevolazioni a loro riservate, una delle quali è il permesso sindacale.

È noto che l’ordinamento a tutela di tale strumento di attuazione della libertà sindacale garantita dall’art. 39 della Carta costituzionale, assegna al Sindacato la possibilità di ricorrere ex art. 28 St. Lav. nei confronti del datore di lavoro, senza invece considerare la posizione del rappresentante sindacale che – usufruendo in maniera impropria dei permessi – parimenti comprima le possibilità di svolgimento delle attività sindacali. Ma è davvero così, o esistono altre soluzioni normative?

Per dare una risposta a questo interrogativo, occorre principiare dalla nozione di “permesso sindacale”, per giungere successivamente alla disciplina rimediale che l’ordinamento assegna a detti diritti soggettivi.

In primo luogo, la legge riconosce a un certo numero di dirigenti sindacali la possibilità di assentarsi dal servizio fruendo di un monte ore complessivo e periodico di permessi retribuiti e non. La Cassazione ha qualificato il diritto ai permessi come “un vero e proprio diritto soggettivo, pieno e incondizionato, che esclude ogni potere discrezionale di concessione o autorizzazione del datore di lavoro in ordine alla fruizione dei permessi suddetti, nonché ogni subordinazione dei medesimi alla compatibilità con esigenze aziendali” (Cass. sez. lav., 20 novembre 1997, n. 11573).

La giurisprudenza è ormai costante nel ritenere che l’utilizzo dei permessi sindacali ex art. 30 della L.300/70 per finalità personali estranee alla previsione normativa sul tema, integri ipotesi per cui sussiste la giusta causa di licenziamento per il dipendente. La condotta del dipendente configura - sia in termini di ricostruzione fattuale che di qualificazione giuridica – un’ipotesi di abuso del diritto in quanto il rilievo disciplinare non si limita a censurare l’assenza ingiustificata del lavoratore ma arriva a contestare l’utilizzo improprio del permesso sindacale.

Ebbene, nell’esaminare, caso per caso, la questione, le corti hanno tenuto sempre conto della particolarità del ruolo che il lavoratore ricopre all’interno dell’azienda, e dunque delle finalità dello stesso permesso: la possibilità di portare avanti attività sindacali, la cui importanza è tale da implicare un’immunità nei confronti del potere sanzionatorio dello Stato e del datore di lavoro, pur riconoscendo e ammettendo che questa comporta l’immediato sacrificio delle ragioni tecnico-produttive (ad esempio, in caso di permesso sindacale, il datore di lavoro deve sopportare la sottrazione di energie lavorative). Il sacrificio delle esigenze tecnico produttive si regge però sul bilanciamento degli interessi costituzionali che entrano in gioco, sul trade off richiesto all’azienda in virtù di un bene superiore quale quello della libertà sindacale.

Nel caso di abuso del permesso sindacale però viene a mancare quel contrappeso che giustificherebbe il sacrificio delle ore di “efficienza produttiva” rinunciate dal datore di lavoro. Lo sforzo compiuto dalla giurisprudenza arriva quindi a ritenere, in tali occasioni, configurata la lesione del vincolo fiduciario nei confronti del datore di lavoro – lesione tale da investire la generalità dei possibili futuri inadempimenti del lavoratore – e dunque è ormai pacifica la sussistenza dei presupposti per la giusta causa del licenziamento del lavoratore che abusa dei permessi sindacali.

Il contrappeso in questione, per riprendere le parole della Corte, non è stato tuttavia creato per confinare il potere del datore di lavoro di organizzare i mezzi di produzione, ma per riempire di significato l’art. 39 Cost., nato come un diritto “spezzato”, vuoto, un guscio di idee e buoni propositi, senza alcun corrispettivo nella realtà delle imprese, mancanza a cui si è cercato di far fronte solo nel 1970 con l’emanazione della legge 300, conosciuta come Statuto dei Lavoratori.

I diritti sindacali servono a rafforzare il sindacato come forma istituzionale e di autotutela esclusiva, attribuendogli prerogative volte a privilegiare il momento collettivo rispetto all’esercizio individuale delle libertà fondamentali e allo Statuto dei Lavoratori, in particolare, è stato affidato il duplice compito di consolidare sul piano legislativo alcune conquiste sindacali e di tentare un delicato coordinamento tra gli istituti di sostegno del sindacato nei luoghi di lavoro e le esigenze imprenditoriali.

Il titolo II e il titolo III dello stesso dettano disposizioni tali da concorrere a rendere effettivo ed esigibile il principio di libertà sindacale all’interno dei luoghi di lavoro: la libertà di organizzazione sindacale, una volta penetrata nell’impresa, non può esaurirsi nel mero riconoscimento del momento associativo (diritto di costituire organismi sindacali aziendali) e deve necessariamente espandersi sino a consentire l’attivazione di situazioni strumentali (quali assemblee, permessi, uso dei locali delle RSA, etc.) in grado di attivare efficacemente l’azione sindacale nei luoghi di lavoro.

Inoltre, se l’esercizio in azienda della libertà sindacale fosse lasciato alla mercé dei rapporti di forza, risulterebbe poco incisivo, stante l’incombenza del potere organizzativo dell’imprenditore.

Quanto ai rimedi previsti dall’ordinamento a presidio del diritto in esame, lo Statuto dei Lavoratori, al titolo II, ha ricondotto a specifiche “situazioni di diritto”, adeguatamente protette, lo svolgimento, da parte di soggetti sindacali particolarmente qualificati, di alcune attività sindacali nell’impresa, cui necessariamente corrisponde una situazione di obbligo in capo al datore di lavoro – quei diritti soggettivi cui fanno riferimento le parole della Corte di Cassazione sopra citata.

E sul tema della protezione, è lo stesso Statuto dei Lavoratori a garantire al sindacato la possibilità di fare ricorso al giudice del lavoro qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti tali da impedire o limitare l’esercizio dell’attività sindacale. Nel caso in cui il giudice del lavoro accerti che, effettivamente, vi è stata una lesione dei diritti sindacali, potrà ordinare al datore di lavoro di cessare dal comportamento ritenuto antisindacale e di rimuovere gli effetti dello stesso: questo il tenore dell’art. 28 della L. 300/70.

Tale norma non contiene una definizione analitica del comportamento antisindacale, ma lo stesso è definito attraverso la descrizione degli atti cui è teleologicamente collegato: in particolare, è stato ritenuto antisindacale il comportamento che incida, in modo diretto, su diritti sindacali espressamente riconosciuti dai contratti collettivi di lavoro, dalla legge o, addirittura, dalla Costituzione. Autorevole dottrina ha puntualizzato, riprendendo anche quanto affermato dalla Cassazione che tale tecnica normativa non sia frutto del caso, ma una precisa scelta legislativa per introdurre una formula che fosse aperta alla varietà dei conflitti e delle realtà quotidianamente presenti sul luogo di lavoro ed elastica rispetto alla mutevole realtà sociale.

Alla luce di tutto quanto detto, quel contrappeso di cui sopra si riempie di nuovo significato. Il permesso sindacale, e qualunque altro degli strumenti messi a disposizione dei rappresentanti sindacali, sono mezzi che concorrono ad esplicare l’efficacia dell’art. 39. La mancanza della garanzia di uno qualunque di questi fa regredire l’azienda ai cui lavoratori è preclusa – in via diretta o indiretta – la libertà sindacale a una situazione pre-statuto dei lavoratori.

Eppure, nel caso di specie, nel caso in cui un lavoratore beneficiario dei contingentati permessi ex art. 24 e 30 St. Lav. ne faccia un uso improprio, gli interessi compressi dal suo comportamento sono molteplici: sì, certamente l’efficienza produttiva aziendale, riconosciuta dalla giurisprudenza e tutelata dalla stessa (Cass. sez. lav., 11 ottobre 2022, n. 1565) ma del pari, ciò che viene leso è il diritto degli altri rappresentanti sindacali presenti in azienda di beneficiare di quelle medesime ore, retribuite, per esercitare davvero quelle attività sindacali.

È necessario, infatti, ricordare come il monte ore di permessi messi a disposizione dall’azienda è di 8 ore mensili totali per finalità sindacali, non 8 ore a lavoratore. In ipotesi del genere, dunque, il comportamento del dirigente sindacale che abusa del permesso sindacale configura una condotta che incide, in modo diretto, su diritti sindacali espressamente riconosciuti dai contratti collettivi di lavoro, dalla legge o, addirittura, dalla Costituzione.

E allora, ci si chiede, perché il sindacato non procede depositando un ricorso al giudice del lavoro così da condannare il lavoratore a cessare qualunque condotta idonea a impedire o limitare l’esercizio dell’attività sindacale? La risposta risiede semplicemente nel testo della norma, che identifica, come abbiamo già puntualizzato, il datore di lavoro come unico soggetto passivo di questa azione.

Ma da questa risposta, purtroppo, non può che discendere la consapevolezza che l’attuazione dell’art. 39 della Costituzione manchi ancora di alcuni elementi utili, idonei – se non necessari – per garantire la piena attuazione della libertà ivi dichiarata. Ciononostante, è il medesimo art. 39 Cost. che nella sua parte immediatamente precettiva potrebbe giustificare un’azione risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. nei confronti del dipendente che utilizzi in modo improprio il permesso sindacale. Infatti, costui erodendo “monte ore” riservato indistintamente ai permessi con tale finalità lede la libertà costituzionale riservata all’azione sindacale dal primo comma dell’articolo citato con conseguente danno non patrimoniale riferibile alla lesione di un diritto costituzionalmente garantito alle OO. SS. (cfr. Cass. civ. sez. II, 28 agosto 2017, n. 20445).

Per tale via ben si potrebbe verificare sul piano sostanziale ancor prima che processuale che datore di lavoro e Sindacato si trovino uniti contro gli abusi del permesso sindacale.

In conclusione, seppur in un contesto di assenza di strumenti di legge specifici a tutela dell’esercizio abusivo del permesso sindacale, l’ordinamento offre già alle parti interessate la facoltà di accertate le effettive responsabilità della compressione delle libertà sindacali di permesso per le attività sindacali, e permettendo che anche il datore di lavoro si possa fare promotore e garante dell’associazionismo dei lavoratori al fianco delle Organizzazioni Sindacali.

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