(App. Milano 24 luglio 2019, n. 937)
Causa seguita da Marina Olgiati e Francesco Torniamenti
Nella sentenza in epigrafe, la Corte d’Appello di Milano, chiamata a giudicare in merito a condotte vessatorie che una lavoratrice assumeva di avere patito da parte del suo ex datore di lavoro, coglie l’occasione per fare un breve excursus sul noto istituto del mobbing e su quello – meno noto – del c.d. straining, sottolineandone le differenze.
Questi i fatti. La lavoratrice - già dirigente – adiva la Corte d’Appello per chiedere la riforma della sentenza di primo grado, che aveva rigettato sia la sua domanda di illegittimità del licenziamento - motivato dalla soppressione del posto di lavoro - sia quella di risarcimento del danno asseritamente causato da mobbing / straining. Assumeva che la risoluzione del suo rapporto di lavoro costituiva l’ultimo atto di una serie di condotte persecutorie subìte (consistite in minacce di licenziamento, inviti pressanti alle dimissioni, spostamenti di ufficio) e sosteneva che tali comportamenti erano causa di una patologia ansioso – depressiva di cui soffriva. Il Collegio, recependo le difese della società datrice, accertava che gli episodi dedotti dalla lavoratrice, oltre ad essere in parte documentalmente smentiti, erano stati, comunque, occasionali ed intervallati con altri comportamenti di segno contrario, con i quali la società aveva dimostrato alla dirigente stima e apprezzamento professionale, vicinanza in occasione di vicissitudini personali difficili, omaggi per il compleanno, nonché compensi ad hoc per attività che, di norma, non venivano retribuite.
Sulla base di tali risultanze, i Giudici di appello hanno escluso la sussistenza del mobbing, ribadendo, come da giurisprudenza consolidata, che tale fattispecie presuppone, da parte del datore di lavoro, una condotta caratterizzata da intento vessatorio, posta in essere in modo sistematico e prolungato tempo (cfr., tra le altre, Cass. 21 maggio 2018, n. 12437). Invero, nel caso di specie le condotte denunciate erano state sporadiche e, comunque, alternate da numerosi trattamenti di favore tali da far escludere una volontà persecutoria da parte datoriale.
Dopo aver negato l’esistenza del mobbing, il Collegio ha escluso, altresì, la sussistenza dello straining, che, nel diritto del lavoro, consiste in una forma attenuata di mobbing (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164). Sul punto, la Corte, qualificando lo straining come fenomeno che presuppone l’esistenza di condotte ostili del datore di lavoro, indirizzate a creare condizioni di lavoro stressogene, le quali, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, siano tali da creare un danno duraturo al dipendente (cfr. anche Trib. Milano 23 aprile 2019, n. 1047), ha rilevato che detta fattispecie, a differenza del mobbing, non richiede la continuità dell’azione molesta e l’intento persecutorio del datore di lavoro utile ad unificare i singoli episodi, ma presuppone, comunque, l’accertamento che, pur valutata singolarmente, la condotta lamentata sia idonea ad arrecare danno al dipendente - in violazione dell’art. 2087 cod. civ. – ovvero a provocare in modo durevole una situazione di stress e di frustrazione personale. Nel caso deciso, la presenza di tali elementi è stata negata dal Collegio perché le condotte denunciate non erano tali da potere arrecare pregiudizio all’appellante, stante la loro occasionalità ed il fatto che si erano alternate con numerosi trattamenti di riguardo nei suoi confronti.