A cura di Tiziano Feriani
Com’è noto, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dipendente, non è sufficiente che il datore di lavoro dimostri l’effettività della riorganizzazione aziendale addotta a fondamento del recesso, la reale soppressione della posizione da lui ricoperta, nonché - in presenza di una pluralità di lavoratori che svolgono mansioni tra loro fungibili - l’esatta individuazione del soggetto in esubero mediante l’applicazione in via analogica dei criteri previsti dall’art. 5 della legge n. 223/91 per i licenziamenti collettivi (esigenze tecnico-produttive ed organizzative, carichi di famiglia e dell’anzianità di servizio), ma deve anche provare di aver adempiuto al c.d. obbligo di repêchage.
In particolare - tenuto conto di quanto previsto dall’art. 2103 cod. civ., così come sostituito dall’art. 3 del D.Lgs. 15 giugno 2015 n. 81 (c.d. “Jobs Act”) - il datore di lavoro è tenuto a dimostrare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore che intende licenziare in una posizione vacante al momento del recesso, con riferimento non solo a mansioni appartenenti allo stesso livello di inquadramento rispetto a quelle da lui, da ultimo, espletate, ma anche appartenenti ad un livello inferiore, purché rientranti nella stessa categoria legale.
L'onere probatorio inerente al repêchage, concernendo un fatto negativo, può essere assolto dal datore di lavoro mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi, quali, ad esempio, il fatto che egli abbia offerto al lavoratore poi licenziato di ricoprire posizioni vacanti in azienda e che quest’ultimo le abbia immotivatamente rifiutate, oppure la circostanza che i posti di lavoro riguardanti mansioni, anche inferiori, ma comunque attinenti alla professionalità acquisita del dipendente licenziato fossero, al tempo del licenziamento, stabilmente occupati da altri lavoratori e/o il fatto che, dopo il licenziamento e per un congruo periodo, non sia stata effettuata alcuna assunzione in relazione ad essi.
Sotto il profilo dell’onus probandi, secondo un primo orientamento tradizionale - ormai non più seguito dalla giurisprudenza di legittimità, ma ancora recentemente enunciato dalla giurisprudenza di merito - la prova, a carico del datore di lavoro, dell’impossibilità di adibire il dipendente ad altre mansioni nell’ambito dell’organizzazione aziendale non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dal lavoratore che impugna il licenziamento una collaborazione nell’accertamento del possibile repêchage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro (anche per mansioni inferiori) in cui egli poteva essere utilmente ricollocato. Ne consegue che, soltanto nel caso in cui il dipendente adempia all’onere di indicare posizioni vacanti, il datore di lavoro è tenuto a dimostrare l’impossibilità di utilizzarlo con esclusivo riferimento a detti posti, essendo in ogni caso esonerato dal prendere in considerazione, ai fini del repêchage, altre posizioni non indicate dal lavoratore (cfr. Cass. 12 agosto 2016, n. 17091; Cass. 12 febbraio 2014, n. 3224; Corte App. Roma 10 marzo 2021, n. 726; Corte App. Catania 27 gennaio 2020, n. 57; Trib. Pistoia 30 settembre 2021 n. 136; Trib. Messina 10 marzo 2021, n. 555).
A tale orientamento si contrappone un diverso indirizzo, seguito recentemente sia dalla Corte di Cassazione che da diversi Tribunali, secondo cui la prova dell’impossibilità del repêchage grava unicamente sul datore di lavoro, non sussistendo alcun onere di collaborazione in capo al dipendente licenziato, il quale, quindi, non è tenuto ad indicare eventuali posti vacanti a lui assegnabili. Pertanto, il datore di lavoro deve dimostrare che non è stato possibile ricollocare il lavoratore licenziato ad altre mansioni - rientranti nello stesso livello di inquadramento o anche in un livello inferiore - prendendo in considerazione tutte le possibili posizioni lavorative esistenti in azienda e compatibili con il suo bagaglio professionale (Cass. 4 marzo 2021, n. 6084; Cass. 12 febbraio 2020, n. 3475; Cass. 27 gennaio 2020, n. 1802; Cass. 11 novembre 2019 nn. 29099 e 29100; Trib. Firenze 20 luglio 2021, n. 545; Trib. Milano 12 gennaio 2021, n. 2443; Trib. Prato 5 ottobre 2020 n. 90; Trib. Roma 24 agosto 2020, n. 4674; Trib. Bari 29 ottobre 2019).
Si tratta, senza dubbio, di un orientamento sin troppo rigoroso, che pone a carico del datore di lavoro una prova estremamente difficile da fornire, soprattutto nell’ambito di aziende di notevoli dimensioni, in cui le posizioni lavorative da esaminare e valutare sono solitamente molto numerose. Proprio al fine di mitigare il rigore di tale orientamento, si è diffuso, negli ultimi anni - sia nella giurisprudenza di legittimità che di merito - un terzo indirizzo che tenta di mediare tra le due tendenze sopra illustrate. In base a quest’ultimo, sebbene non sussista un onere del lavoratore di collaborare con il datore di lavoro - indicando i posti esistenti in azienda, al momento del recesso, in cui avrebbe potuto essere ricollocato - qualora il dipendente, pur non essendone tenuto, indichi, comunque, dette posizioni, il datore di lavoro può assolvere l’obbligo di repêchage, prendendo posizione soltanto con riferimento ad esse e dimostrando la loro insussistenza (Cass. 16 marzo 2021, n. 7360; Cass. 22 febbraio 2021, n. 4673; Cass. 20 luglio 2020, n. 15401; Cass. 28 febbraio 2019, n. 5996; Cass. 24 settembre 2019 n. 23789; Trib. Roma 28 agosto 2020, nn. 3971 e 3972).
Tale ultimo indirizzo appare senz’altro preferibile ed è, quindi, auspicabile che diventi prevalente, anche in ragione del fatto che, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale 7 aprile/19 maggio 2022 n. 125 - la quale ha dichiarato incostituzionale l’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300/1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. legge Fornero), limitatamente alla parola “manifesta” - l’adempimento dell’obbligo di repêchage diviene un elemento costitutivo della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. A ciò consegue che - con riguardo ai dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015 e, quindi, soggetti all’applicazione della legge n. 92/2012 - la sua violazione comporterà, con ogni probabilità, ai sensi del summenzionato art. 18, settimo comma, il riconoscimento della tutela reintegratoria (reintegrazione ed indennità risarcitoria non superiore a 12 mensilità), anziché di quella indennitaria forte (indennità risarcitoria da 12 a 24 mensilità) (cfr., sul punto, Cass. 6 luglio 2022 n. 21470).