(Trib. Firenze, 18 gennaio 2019, n. 51)
Causa seguita da Marina Olgiati
Il caso esaminato dal Tribunale riguarda il licenziamento di una dipendente con compiti di promozione della clientela.
La dipendente svolgeva la sua attività prevalentemente all’esterno dell’azienda; non aveva obbligo di attestare la sua presenza mediante timbrature e certificava la sua prestazione attraverso report da lei stessa compilati, secondo modalità delineate da una specifica procedura interna, che ne prevedeva la pianificazione su base settimanale, con indicazione nel database aziendale dei clienti da visitare. Alla fine della giornata lavorativa, la lavoratrice doveva indicare nel report le visite effettivamente portate a termine.
La società datrice aveva contestato all’interessata l’infedele compilazione dei report, avendo accertato che le visite ivi indicate non corrispondevano a quelle reali. La verifica era avvenuta attraverso investigatori - incaricati dall’azienda di monitorare gli spostamenti della dipendente durante l’orario di lavoro - i quali avevano constatato, da un lato, che la dipendente non visitava la clientela e, dall’altro lato, che durante il tempo di lavoro la medesima svolgeva attività di carattere privato.
Il Tribunale ha ritenuto decisivo, ai fini della legittimità del licenziamento e della sussistenza della giusta causa, l’infedele compilazione dei report, che la dipendente non aveva specificatamente contestato e, in parte, aveva pure ammesso: secondo la decisione, con il suo comportamento la lavoratrice aveva creato una situazione di apparenza lavorativa, determinante una grave violazione degli obblighi di fedeltà, correttezza e buona fede, considerato, in particolare, che ella svolgeva attività all’esterno - sicché era difficilmente controllabile - e che l’unico strumento per verificare lo svolgimento della sua prestazione lavorativa da parte dell’azienda erano i report auto-compilati dalla stessa.
È rimasta, pertanto, sullo sfondo – in quanto non ne è stato necessario l’esame – la questione della legittimità dell’utilizzo delle relazioni/testimonianze degli investigatori come prova del fatto contestato in una fattispecie come quella di causa; il tema era stato prospettato in giudizio dalla lavoratrice con richiamo alla più recente giurisprudenza formatasi in materia. Al riguardo, si possono svolgere alcune considerazioni.
La Corte di Cassazione, nelle ultime pronunce, ha affermato che il controllo delle guardie particolari giurate, o di un’agenzia investigativa, non può riguardare l’adempimento o l’inadempimento della prestazione lavorativa, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore anche laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione; questo in quanto la vigilanza dell’attività lavorativa è riservata, dall’art. 3 Stat. Lav., direttamente al datore di lavoro o ai suoi collaboratori (Cass. 11 giugno 2018, n. 15094; Cass. 4 settembre 2018, n. 21621). Ne consegue che, ove il licenziamento attenga a comportamenti inadempienti del lavoratore e sia stato basato sulle risultanze di indagini investigative, il provvedimento espulsivo sarà ingiustificato e il Giudice disporrà la reintegrazione in servizio.
Si tratta, pertanto, di stabilire se, in fattispecie, il controllo “occulto”, effettuato dagli investigatori incaricati, sia stato illegittimo oppure no per avere riguardato o meno l’adempimento della prestazione lavorativa.
Come rilevato in sentenza, il fatto su cui è stato fondato il licenziamento è costituito dall’infedele e falsa compilazione dei report, ovvero da un fatto illecito, che potrebbe assumere rilevanza anche penale.
Pare, dunque, consequenziale ritenere che, nel caso, il ricorso agli investigatori da parte del datore di lavoro è stato giustificato: la finalità del “controllo” non è stata, infatti, la verifica della violazione del dovere di diligenza nello svolgimento della prestazione lavorativa, bensì la condotta fraudolenta della dipendente in ordine alla rendicontazione dell’attività svolta e dalla medesima autocertificata.
Va pure soggiunto che una tale condotta è fonte di danno patrimoniale - reale o potenziale – per il datore, in quanto l’attività svolta all’esterno dal lavoratore determina il diritto di questi a rimborsi spese, che, in assenza della prestazione lavorativa, non sono dovuti. Pertanto, rispetto a questo profilo, saremmo in presenza o di un fatto illecito “certo” oppure del “sospetto del compimento di un illecito”, circostanza quest’ultima che rende anch’essa, di per sé, legittimo il ricorso agli investigatori.
Infine, va ricordato che la Cassazione non ha dubbi in merito alla legittimità dell’utilizzo delle agenzie investigative quando si tratti di effettuare controlli durante i periodi di sospensione del rapporto di lavoro, al fine di consentire al datore di lavoro di prendere conoscenza di comportamenti extra lavorativi, che assumono rilievo sotto il profilo del corretto adempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro: si pensi, ad es., ai controlli disposti in corso di malattia (v. Cass. 26 novembre 2014, n. 25162; Cass. 22 maggio 2017, n. 12810; Cass. 18 aprile 2018, n. 9590) o in occasione dell’utilizzo dei permessi ex L. n. 104/1992 da parte del lavoratore (Cass. 4 marzo 2014, n. 4984 e Cass. 18 febbraio 2019, n. 4670).