Licenziamento per superamento del periodo del comporto: nel computo si considerano anche i periodi di assenza per malattia professionale, e il licenziamento è legittimo se il lavoratore non dimostra la responsabilità del datore di lavoro nella insorgenza della malattia
Causa seguita da Tommaso Targa
Tribunale di Novara, ordinanza 16 ottobre 2018
Nel caso esaminato dall’ordinanza in commento, resa nell’ambito della fase sommaria di un procedimento ex “legge Fornero”, il lavoratore era pacificamente rimasto assente per un numero di giorni superiore al periodo di comporto per cui aveva diritto alla conservazione del posto di lavoro secondo il C.C.N.L. di categoria. Egli aveva, tuttavia, lamentato che la malattia - nella specie sindrome ansioso depressiva a carattere reattivo - fosse la conseguenza di una pretesa dequalificazione professionale, con conseguente responsabilità dell’azienda nell’insorgenza della malattia e, quindi, illegittimità del licenziamento.
La sentenza ha premesso che, se il lavoratore lamenta la natura professionale della malattia, deve dimostrare che le assenze e, quindi, il superamento del periodo di comporto, avessero avuto causa, in tutto o in parte, nella nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro aveva omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza (art. 2087 cod. civ.) o di specifiche norme. In sostanza, il lavoratore deve dimostrare la responsabilità del datore di lavoro per violazione del generale obbligo di protezione e/o di specifiche norme di legge, per cui l’infermità che ha dato causa alle assenze fosse imputabile a responsabilità datoriale per una condotta antigiuridica dell’azienda.
Richiamando l'orientamento consolidato della Suprema Corte, la sentenza ha rimarcato che non è sufficiente, perché l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, che si tratti di malattia professionale, meramente connessa alla prestazione lavorativa. E’ necessario che, in relazione a tale malattia e alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. Ciò in quanto, con riferimento alla disciplina legale del comporto per malattia, le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono riconducibili all'ampia e generale nozione di "infortunio" o "malattia" contenuta nell'art. 2110 c.c., evidentemente comprensiva anche di dette specifiche categorie di impedimenti dovuti a cause di lavoro, e sono, pertanto, normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto previsto nello stesso art. 2110 c.c., la cui determinazione è da questa norma rimessa alla legge, alle norme collettive, all'uso o all'equità.
Le medesime assenze da infortunio sul lavoro o da malattia professionale non sono, invece, idonee a far decorrere il periodo di comporto, ne' dunque ad essere computate nel calcolo di tale periodo, soltanto allorquando non solo abbiano avuto causa in fattori di nocività insiti nelle modalità d'esercizio delle mansioni o comunque presenti nell'ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell'attività lavorativa, ma quando il datore di lavoro sia altresì responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all'obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell'art.2087 c.c.. Soltanto, allorquando ricorra un tale inadempimento del datore di lavoro, con violazione pertanto da parte sua dell'obbligazione di tutelare (ex cit. art. 2087) le condizioni di lavoro del dipendente, le assenze per malattia o per infortunio di quest'ultimo, che abbiano origine e trovino causa in detto inadempimento, non possono essere computate nel periodo di comporto, giacché in questo caso l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento illecito della stessa parte cui detta prestazione è destinata.
Da ciò consegue che non è sufficiente, perché l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, che si tratti di malattia professionale, meramente connessa cioè alla prestazione lavorativa, ma è necessario che in relazione a tale malattia, e alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro quanto meno ai sensi dell'art. 2087 c.c..
Alla luce dei principi di diritto sopra esposti, l’ordinanza ha esaminato i pretesi comportamenti che, nella prospettiva del lavoratore, avrebbero costituito il suo asserito demansionamento. Ha quindi ritenuto che tali comportamenti - consistenti nell’affiancamento del lavoratore, che aveva funzioni direttive, ad un altro manager - si giustificavano in ragione della peculiare situazione dell’azienda e, in particolare, del recente mutamento dell’assetto proprietario della stessa.
Esclusa quindi la lamentata antigiuridicità dei provvedimenti organizzativi aziendali, l’ordinanza ha ritenuto che la patologia da cui era affetto il lavoratore non possa essere stata provocata dalla situazione lavorativa e, se anche lo fosse, non sarebbe addebitabile a dolo o colpa del datore di lavoro: di qui la correttezza del conteggio del superamento del periodo di comporto e la conseguente legittimità del licenziamento intimato.