A cura di Orazio Marano
Lo “scarso rendimento” consiste in un inadempimento del lavoratore relativo alla sua obbligazione principale (che è quella di eseguire correttamente la prestazione lavorativa) e, pertanto, si configura – secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale – come un giustificato motivo soggettivo di licenziamento (che ha quindi natura disciplinare).
Con riferimento a detta tipologia di recesso, le problematiche concernono non solo la valutazione – da parte del giudice – della gravità dell’inadempimento, ma anche i suoi presupposti.
Al riguardo, per orientamento consolidato della giurisprudenza, il licenziamento intimato al lavoratore per “scarso rendimento” è legittimo soltanto qualora il datore di lavoro provi rigorosamente il comportamento negligente del proprio dipendente, in quanto elemento costitutivo del recesso per giustificato motivo soggettivo, dimostrando altresì che l'inadeguatezza del “risultato” non sia ascrivibile all'organizzazione del lavoro da parte dell'imprenditore ed a fattori socio-ambientali. Nello specifico, affermano i giudici di legittimità, deve risultare provato, sulla scorta di una valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore e all’esito degli elementi dimostrati dal datore di lavoro (anche tramite presunzioni: cfr. Cass. 22 gennaio 2009, n. 1632), un’evidente violazione della diligenza nella collaborazione dovuta dal dipendente – al medesimo imputabile – tenuto conto di una rilevante sproporzione tra gli obiettivi aziendali assegnati al lavoratore e quanto effettivamente dal medesimo realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei dati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione (cfr. Cass. 9 giugno/19 settembre 2016, n. 18317; Cass. 4 settembre 2014, n. 18678; Cass. 22 febbraio 2006, n. 3876). In tale contesto, rilevano tutte quelle condotte tenute dal lavoratore che, per frequenza e ripetitività, possono rivestire notevole incidenza sia sul rendimento che sulla regolarità del servizio. Quanto sopra, però, con delle limitazioni.
Ed infatti, con una recente ordinanza (la n. 1584 del 19 gennaio 2023), la Corte di Cassazione, pronunciatasi su una fattispecie riconducibile al licenziamento per “scarso rendimento” (nello specifico si trattava di un provvedimento di “esonero definitivo” per scarso rendimento previsto da un regolamento attuativo del R.D. n. 148/1931 che disciplina il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri), ha affermato che a fondamento dello “scarso rendimento” non possono essere posti comportamenti già sanzionati disciplinarmente.
Ciò, in ragione del fatto che l’addurre a fondamento di detta tipologia di recesso (avente, come detto, natura disciplinare) motivi che hanno determinato l’irrogazione di precedenti sanzioni, costituirebbe un'indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte oramai esaurite (cfr. Cass. 23 marzo 2017, n. 7522; in termini, Cass. 14 febbraio 2017, n. 3855).
Trattasi di pronunzia che conferma un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, anche nell’ipotesi di licenziamento per “scarso rendimento”, deve trovare applicazione il divieto di esercitare due volte il potere disciplinare per lo stesso fatto, sulla base di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica (cfr. Cass. 11 ottobre 2016, n. 20429; Cass. 22 ottobre 2014, n. 22388).
Solamente quando sia esclusa tale ultima ipotesi, è senz'altro consentita al datore di lavoro una valutazione complessiva di pregressi comportamenti del dipendente.
Diversamente, il licenziamento è illegittimo e le conseguenze sanzionatorie sono quelle derivanti dall’insussistenza del fatto contestato (quindi la reintegra c.d. “attenuata” prevista dall’art. 18, quarto comma, legge n. 300/70), in quanto, una volta che di fronte ad una condotta disciplinarmente rilevante il datore di lavoro abbia esercitato il proprio potere punitivo, non solo si verifica la consumazione di detto potere in capo al titolare (sicché lo stesso non può più esercitarlo per il medesimo fatto), ma nel contempo il fatto costituente addebito disciplinare diviene non più sanzionabile, quindi perde il carattere di illiceità per l'esaurirsi del potere sanzionatorio (cfr. Cass. 30 ottobre 2018, n. 27657); ipotesi, quest’ultima, equiparata all’insussistenza del fatto medesimo (cfr. Cass. n. 20450 del 2015; Cass. n. 18418 del 2016).
Da ultimo, giova evidenziare che alcune pronunzie meno recenti (cfr. Cass. 22 novembre 1996, n. 10286; Cass. 4 novembre 2004, n. 21121; Cass. 7 marzo 2005, n. 4827; Cass. 14 luglio 2005, n. 14815) hanno ricondotto il licenziamento per “scarso rendimento” – al verificarsi di determinate condizioni – nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con la conseguenza che, a prescindere dalla ricorrenza di un inadempimento imputabile al lavoratore, la prestazione di lavoro risulti essere oggettivamente non più utile per il datore di lavoro o dallo stesso sufficientemente e proficuamente utilizzabile, incidendo negativamente sulla produzione aziendale. Trattasi di orientamento giurisprudenziale minoritario (oltre che superato da sentenze recenti di segno opposto), nel cui ambito peraltro non è nemmeno riconducibile il recesso per “scarso rendimento” e conseguente disservizio aziendale determinato dalle ripetute assenze per malattia del lavoratore (ritenuto legittimo dalla Suprema Corte con la pronunzia n. 18678/2014), non potendo dette assenze legittimare – prima del superamento del periodo massimo di comporto (cfr. Cass. n. 16582/2015; Cass. n. 1404/2012) – un valido licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cfr. Cass. n. 31763/2018); lo stesso, infatti, sarebbe nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110, secondo comma, cod. civ. (cfr. Cass. Sez. Un. 22 maggio 2018, n. 12568), che – com’è noto – garantisce al prestatore di lavoro assente per malattia il posto di lavoro per un determinato periodo di tempo, di regola stabilito dalla contrattazione collettiva.