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Licenziamento per ragioni organizzative: obbligo di repechage e potere discrezionale del giudice

Licenziamento per ragioni organizzative: obbligo di repechage e potere discrezionale del giudice 

A cura di Antonio Cazzella

Con la recente sentenza n. 10435 del 2 maggio 2018, la Suprema Corte è intervenuta su una questione già ampiamente dibattuta, ovvero le “tutele” applicabili, ai sensi dell’art. 18 Stat. Lav., in caso di licenziamento per ragioni organizzative, a seguito dell’accertata violazione dell’obbligo di repechage.

La fattispecie riguarda un licenziamento per soppressione del posto di lavoro a seguito di una riorganizzazione aziendale, attuata a fronte di dati di bilancio sensibilmente negativi, riscontrati nei due anni precedenti la risoluzione del rapporto di lavoro: il giudice di merito, pur riconoscendo la sussistenza e l’effettività delle ragioni poste a fondamento del licenziamento, ha ritenuto insufficientemente assolto l’onere probatorio relativo al repechage (avendo rilevato varie assunzioni effettuate nel periodo in cui l’azienda risultava “in sofferenza”) e, quindi, accertata l’illegittimità del licenziamento, ha applicato la tutela indennitaria.

La Corte di Cassazione, nell’esaminare le censure svolte dalla lavoratrice, ha ribadito l’orientamento secondo cui il datore di lavoro deve dimostrare l’impossibilità di una diversa collocazione del dipendente e, in particolare, ha ricordato che, trattandosi di prova negativa, il datore deve “fornire la prova di fatti e circostanze esistenti di tipo indiziario o presuntivo idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa nel contesto aziendale”.

Tanto premesso, la Suprema Corte ha esaminato la nozione di “manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento”, richiamata dall’art. 18 Stat. Lav., comma 7, al fine di individuare la configurabilità delle ipotesi - sia pure residuali (come già affermato dalla stessa Suprema Corte: cfr., ex plurimis, Cass. n. 14021/2016) - di operatività della tutela reintegratoria, e ciò con particolare riferimento al caso in cui il datore di lavoro dimostri l’effettività della soppressione del posto di lavoro, ma venga accertata l’esistenza di altri posti di lavoro.

A tal riguardo, la Corte di Cassazione ha chiarito che il riferimento legislativo alla “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” deve essere inteso con riferimento ad entrambi i presupposti di legittimità della fattispecie, in quanto l’espressione lessicale utilizzata dal legislatore, il “fatto”, sganciata da richiami diretti ed espliciti alle “ragioni” connesse con l’organizzazione del lavoro o con l’attività produttività, deve intendersi riferita alla nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo elaborata dalla giurisprudenza consolidata (comprensiva, quindi, dell’obbligo del datore di lavoro di dimostrare l’impossibilità di un reimpiego del dipendente licenziato).

In particolare, la Suprema Corte precisa che il concetto di “manifesta insussistenza” va riferito ad un’evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamentoche consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso”.

Nel caso esaminato, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte di merito, mutandone solo la motivazione, in quanto, essendo stata pacificamente accertata l’esistenza di una ristrutturazione organizzativa, era stata rilevata un’insufficienza probatoria in ordine all’insussistenza di posti ove utilmente collocare la lavoratrice.

In particolare, la Corte di Cassazione si è soffermata ad esaminare il sistema di graduazione delle sanzioni applicabili, rilevando che, nello schema legislativo, è previsto che il licenziamento fondato su fatti manifestamente insussistenti “può” essere assoggettato a sanzioni diverse: la reintegrazione nel posto di lavoro (comma 4 dell’art. 18 Stat. Lav.) oppure il risarcimento del danno (comma 5).

La Suprema Corte ha evidenziato che l’art. 18 Stat. Lav. non fornisce alcuna indicazione per stabilire in quali occasioni il giudice possa attenersi al regime sanzionatorio più severo, ovvero a quello meno rigoroso.

Pertanto, il criterio che consente al giudice di esercitare, secondo i principi di ragionevolezza, il potere discrezionale può essere desunto dai principi generali dell’ordinamento in materia di risarcimento del danno e, in particolare, dal concetto di eccessiva onerosità della prestazione, al quale il codice civile fa riferimento nel caso in cui il giudice ritenga di sostituire il risarcimento per equivalente alla reintegrazione in forma specifica (cfr. art. 2058 cod. civ., applicabile anche ai casi di responsabilità contrattuale).

A ciò consegue, secondo la Suprema Corte, che il giudice deve valutare (e motivare), nella scelta del regime sanzionatorio da applicare, se la tutela reintegratoria sia, al momento dell’adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa.

In tale ottica, è stato affermato il principio secondo cui “una eventuale accertata eccessiva onerosità di ripristinare il rapporto di lavoro può consentire, dunque, al giudice di optare – nonostante l’accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento – per la tutela indennitaria”.

In conclusione, l’assolvimento dell’onere probatorio sull’obbligo di repechage assume rilievo determinante per valutare la legittimità del licenziamento e l’inadempimento di tale onere può comportare l’applicazione della tutela reintegratoria.

Tuttavia, il giudice dovrà comunque considerare la nuova organizzazione, medio tempore assunta dal datore di lavoro, per valutare se il ripristino del rapporto di lavoro risulti eccessivamente gravoso e, quindi, sulla base del “potere discrezionale” espressamente riconosciutogli dall’art. 18 Stat. Lav., eventualmente applicare la tutela risarcitoria.

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