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Licenziamento per ragioni organizzative di un dipendente affetto da grave patologia: non sussiste motivo illecito o discriminazione

Licenziamento per ragioni organizzative di un dipendente affetto da grave patologia: non sussiste motivo illecito o discriminazione

A cura di Stefano Beretta e Antonio Cazzella

Con sentenza n. 23338 del 27 settembre 2018 la Suprema Corte ha escluso la sussistenza di un motivo illecito o, comunque, di un intento discriminatorio riguardo il licenziamento intimato ad una dipendente, affetta da una grave patologia, al suo rientro in servizio al termine di una lunga assenza, in quanto: a) il datore di lavoro aveva effettivamente dimostrato l’esistenza delle ragioni organizzative (che comportavano la riduzione dell’organico del reparto amministrazione, composto da due unità), consistente in notevoli perdite economiche consolidate negli anni; b) non sussisteva il motivo illecito determinante ovvero la discriminatorietà del recesso, in quanto la dipendente non aveva fornito elementi fattuali idonei a dimostrare la discriminazione (nel caso di specie, la dipendente aveva dedotto la prevedibilità di future assenze dal lavoro per cicli di terapie, l’addestramento della collega non licenziata in vista della riduzione di personale, il differimento del suo rientro in servizio dalla malattia motivato con una derattizzazione mai attuata, la sollecitazione al prolungamento dell’assenza per malattia).

Peraltro, al fine di escludere il licenziamento discriminatorio, era anche emerso che l’altra dipendente addetta al reparto amministrativo aveva ricevuto in affido un bambino e, quindi, sussisteva un divieto al licenziamento nei suoi confronti. La Suprema Corte ha precisato, quanto agli elementi presuntivi che il dipendente deve fornire ove intenda dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio, che deve essere provato il fattore di rischio ed il trattamento che si assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, deducendo una correlazione significativa fra questi elementi che renda plausibile la discriminazione; il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, che siano idonee ad escludere – per precisione, gravità e concordanza di significato – la natura discriminatoria del recesso, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata, con i medesimi parametri, nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio.

 

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