×

T&P Magazine

Licenziamento. La (ir)rilevanza della condotta illecita extralavorativa

Licenziamento. La (ir)rilevanza della condotta illecita extralavorativa

A cura di Damiana Lesce

 

Con la sentenza n. 21958 del 10 settembre 2018, la Corte di Cassazione fa il punto sulla rilevanza, a fini disciplinari, di comportamenti che, magari anche accertati con sentenza penale di condanna, attengano a comportamenti estranei al rapporto di lavoro.

Nella motivazione, la Corte di Cassazione ripercorre le regole generali applicabili a fattispecie quali quella in esame.

Il caso riguardava un dipendente licenziato (per giusta causa) a seguito di una sentenza penale di condanna, di cui vi era stata peraltro eco mediatica, per maltrattamenti nei confronti di familiari.

La Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte di Appello che, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ordinato la reintegrazione in servizio del dipendente.

In primo luogo, richiamando principi già espressi in precedenza, la Corte conferma che anche una condotta illecita extralavorativa del prestatore è suscettibile di rilievo disciplinare, e pertanto anche di dar luogo alla più grave delle sanzioni (il licenziamento)  poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche a non porre in essere, fuori dell'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da compromettere il rapporto fiduciario, comportamenti il cui apprezzamento in concreto è rimesso al giudice di merito.

Data tale premessa, tuttavia, facendo applicazione dei principi generali sottesi alla nozione di giusta causa di licenziamento, la Corte – come innanzi detto – nel caso in esame ha confermato la illegittimità del licenziamento.

Il punto di partenza è, infatti, proprio la nozione di giusta causa: ai fini del licenziamento per giusta causa, rileva soltanto la mancanza del lavoratore tanto grave da giustificare l’irrogazione della sanzione espulsiva, dovendosi valutare il comportamento del prestatore nel suo contenuto oggettivo - ossia con riguardo alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che sia richiesto dalle mansioni espletate -  ma anche nella sua portata soggettiva, e, quindi, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai modi, agli effetti e all’intensità dell'elemento volitivo dell’agente.

In applicazione dei predetti principi, la Corte di Cassazione ha ritenuto incensurabile la sentenza della Corte di Appello per avere, quest’ultima, tenuto conto delle seguenti circostanze:

-         nel periodo compreso tra l’assunzione e i fatti che hanno condotto all'intimazione del licenziamento, il lavoratore non aveva mai avuto comportamenti aggressivi o violenti né con i colleghi né con i terzi con i quali veniva in contatto abitualmente per ragioni di servizio;

-         il lavoratore non era mai stato destinatario, quindi, di procedimento disciplinari per condotte astrattamente riconducibili a quelle per le quali (maltrattamenti) era stato condannato penalmente;

-         le condotte private, e di cui alla sentenza penale, non risultavano, pertanto, incompatibili con il ruolo ricoperto dal dipendente per ragioni di servizio;

-         il giudizio prognostico sulla correttezza e adeguatezza del comportamento futuro del dipendente non poteva condurre a ritenere che il lavoratore avrebbe reiterato comportamenti quali quelli per i quali era stato condannato, comportamenti che, pertanto, non erano idonei a riversarsi sul piano del rapporto di lavoro e quindi a compromettere la fiducia del datore nel corretto futuro svolgimento del contratto di lavoro da parte del dipendente;

-         doveva escludersi nella specie anche un danno all’immagine, affermato dalla società quale conseguenza della eco mediatica che aveva accompagnato la vicenda al suo inizio e nei momenti successivi, data la portata esclusivamente locale delle notizie di stampa e la genericità dei riferimenti, in esse contenuti, alla identità del datore di lavoro, al ruolo ricoperto e al luogo in cui egli svolgeva, al tempo dei fatti, la propria attività lavorativa.

Pertanto, a leggere la sentenza, si deve concludere che il disvalore della condotta tenuta dal dipendente nella propria vita privata, per quanto (oltre a costituire un reato) la condotta possa essere ritenuta socialmente e moralmente odiosa, in assenza di ulteriori elementi (quelli valorizzati in motivazione) non può giustificare la decisione del datore di non voler proseguire nel rapporto di lavoro.

A parere di chi scrive, nel caso in esame siamo a di poco border line tra il diritto/dovere del Giudice di apprezzare la reale sussistenza della giusta causa di licenziamento ed il diritto costituzionale del datore di lavoro all’autonomia imprenditoriale.

 

New Call-to-action

 

 

Rassegna stampa

Iscriviti alla Newsletter

Tags

Vedi tutti >