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Licenziamenti e tutele crescenti: discrezionalità “vincolata” del Giudice nella quantificazione dell’indennità risarcitoria

Licenziamenti e tutele crescenti: discrezionalità “vincolata” del Giudice nella quantificazione dell’indennità risarcitoria

A cura di Marina Olgiati

 

L’8 novembre 2018 è stata pubblicata la sentenza della Corte Costituzionale (sentenza 8 novembre 2018, n.194), che - come annunciato dalla stessa Consulta nel comunicato stampa del 26 settembre scorso – ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3, comma 1, del D. Lgs. n. 23/2015, per contrasto con i principi di ragionevolezza e di uguaglianza e con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli artt. 4 e 35 della Costituzione, nella parte in cui, in caso di licenziamento ingiustificato in regime di contratto di lavoro a tutele crescenti (c.d. Job Act), prevede(va) un’indennità progressiva in funzione della sola anzianità di servizio. 

D’ora in poi, la parte della norma dichiarata incostituzionale non potrà più applicarsi ai giudizi pendenti e futuri.

La sentenza, dopo avere preliminarmente valutato  che il recente Decreto Dignità (D.L. 12 luglio 2018, n. 87, convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96) non  ha mutato i termini essenziali della questione posta all’attenzione della Corte Costituzionale (la novella ha innalzato i minimi e i massimi dell’indennità risarcitoria - nel minimo da 4 a 6 mensilità e nel massimo da 24 a 36 mensilità - ma non ha toccato la regola generale dell’indennizzo, determinato in via crescente in relazione all’anzianità di servizio), ha parzialmente accolto le censure di incostituzionalità delle norme del Jobs Act sollevate dal Tribunale di Roma con l’ordinanza del 26 luglio 2017.

La Consulta, ritenuta l’inammissibilità delle questioni di costituzionalità relative ad alcune norme (gli artt. 2 e 4 del D. Lgs. n. 23/2015, in quanto non applicabili al giudizio sottoposto all’esame del Tribunale di Roma, e l’art. 1, comma 7, lett c) della legge 183/2014, per mancanza di motivazione sulla non manifesta infondatezza), ha circoscritto il giudizio all’art. 3, comma 1, D. Lgs. 23/2015, essendo questa la tutela invocata nel giudizio di cui era investito il Giudice remittente, che riguardava un caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Si ricorderà che il Tribunale di Roma aveva denunciato l’incostituzionalità dell’art. 3 del D. Lgs. n. 23 del 2015, sostenendone il contrasto: 

- con l’art. 3 della Costituzione, in quanto l’indennità risarcitoria ivi prevista non era compensativa del pregiudizio conseguente ad un licenziamento dichiarato illegittimo, né aveva valore dissuasivo per il datore dal procedere ad un recesso invalido, considerata anche la mancanza di discrezionalità del giudice nel determinarne l’ammontare. Inoltre, la norma determinava una discriminazione rispetto ai licenziamenti di lavoratori in regime di art. 18 Stat. Lav.;

- con gli artt. 4 e 35 della Costituzione, che tutelano il fondamentale diritto al lavoro, a cui, però, le norme denunciate attribuivano un controvalore monetario irrisorio e fisso;

- con gli artt. 76 e 117 della Costituzione, perché la sanzione indennitaria appariva inadeguata, considerati anche i principi stabiliti da fonti sovranazionali (art. 30 della Carta di Nizza; art. 24 della Carta Sociale Europea; art. 10 della Convenzione OIL n. 158/1982).

Rispetto a tali censure, la Corte ha, anzitutto, affermato che l’art. 3 comma 1 non contrasta con il principio di uguaglianza e non determina una discriminazione di trattamento tra i lavoratori licenziati, assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, “poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche” e risponde, invece, al canone della ragionevolezza, in quanto lo scopo perseguito dal legislatore è stato quello “di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione” (art. 1, comma 7, alinea 1, della legge n. 183/2014), ovvero di favorire le assunzioni, prevedendo conseguenze meno gravose nel caso di licenziamento illegittimo.

La disposizione non confligge con il principio di uguaglianza nemmeno considerando che, tra i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, la nuova tutela non si applica ai dirigenti che godono, perciò, di una disciplina indennitaria più favorevole rispetto agli altri lavoratori subordinati: infatti, le due categorie di lavoratori sono disomogenee, così come diversi sono i rispettivi rapporti di lavoro. 

L’art. 3, comma 1 è stato, invece, giudicato in contrasto con gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, nonché con il principio contenuto nella Carta Sociale Europea (che, a tutela di licenziamenti illegittimi, stabilisce il riconoscimento di un “equo indennizzo”) nella parte in cui determina l’indennità, collegandola alla sola anzianità aziendale. Questo criterio - sottolinea la Consulta - non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa, da un lato, e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato, dall’altro lato. Si tratta di un meccanismo rigido, che determina un inidoneo ristoro del danno subito dal lavoratore ingiustamente licenziato e non ha adeguata efficacia dissuasiva per il datore che decida di procedere ad un licenziamento invalido; inoltre, produce un’omologazione ingiustificata di situazioni diverse, mentre il pregiudizio prodotto nei vari casi dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori e l’anzianità è soltanto uno dei tanti. 

Questa sentenza, dunque, restituisce al Giudice il potere di determinare discrezionalmente l’indennità; stabilisce, tuttavia, anche il principio che tale potere deve essere esercitato in base a determinati criteri, che vengono mutuati dalla disciplina vigente sui licenziamenti individuali: dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, che nell’ambito di una soglia minima e massima, prevede che l’indennità venga determinata avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti; dall’art. 18 quinto comma della legge n. 300 del 1970, che stabilisce che l’indennità risarcitoria sia determinata tra un minimo di 12 e un massimo 24 mensilità, secondo parametri in larga parte analoghi a quelli di cui all’art. 8 cit.

Sottolineano, ancora, i Giudici costituzionali che l’esigenza di personalizzazione del danno è imposta dal principio di uguaglianza.

In definitiva, il Giudice che abbia accertato l’illegittimità del licenziamento, ferma la soglia minima e massima fissata dal legislatore, dispone di molteplici criteri per determinare l’indennità: innanzitutto, il criterio dell’anzianità di servizio e, poi, i criteri che si ricavano in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina sui licenziamenti individuali, espressamente individuati nei seguenti: numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti. Ne consegue che il Giudice potrà discostarsi dall’indennità minima anche nel caso in cui il lavoratore ingiustamente licenziato sia stato assunto da poco tempo, ma avrà l’obbligo di motivatamente calibrare l’indennità risarcitoria, richiamando uno o più dei criteri indicati dalla Consulta.

 

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