Nell’ambito di una riorganizzazione aziendale che preveda esuberi (anche) in posizioni dirigenziali, l’azienda deve estendere la procedura di licenziamento collettivo alle rappresentanze sindacali dei dirigenti. La mancata consultazione dell’associazione maggiormente rappresentativa (nel caso di specie, Federmanager), ed eventualmente della RSA dei dirigenti (se presente), comporta l’illegittimità del licenziamento intimato ai dirigenti per ipotetiche ragioni oggettive connesse alla riorganizzazione aziendale.
Così ha deciso la Corte di Cassazione, con sentenza del 25 gennaio 2019 n. 2227, dando per la prima volta applicazione al “nuovo” art. 24 della Legge 223/1991: norma modificata dalla Legge 30 ottobre 2014 n. 161, che ha dato attuazione ad un principio di derivazione comunitaria.
Qui bisogna fare una digressione. La riforma del 2014 ha consentito di sanare alcune discrepanze della Legge 223/91 rispetto alla direttiva comunitaria attuativa (Direttiva CEE del 17 febbraio 1975) sul ravvicinamento delle legislazioni degli stati membri in materia di licenziamenti collettivi. Una di queste era proprio l’esclusione dei dirigenti dal personale “coperto” dalle speciali tutele.
L’intervento correttivo del Legislatore italiano aveva fatto seguito alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 13 febbraio 2014 la quale, a conclusione della procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea nel 2007 nei confronti dell’Italia, aveva accertato la violazione agli obblighi imposti dalla successiva Direttiva del Consiglio 98/59/CE del 20 luglio 1998 (che ha sostanzialmente confermato l'impianto preesistente risultante dalle precedenti direttive in tema di licenziamenti collettivi, ossia la Direttiva 75/129/CEE e la Direttiva 92/56/CE) che non ammetteva alcuna possibilità per gli Stati di escludere categorie di lavoratori dalla procedura dettata dall’art. 2 della Direttiva stessa.
La Legge 161/2014 ha così modificato l’art. 24 della Legge n. 223/1991, inserendo al primo periodo del primo comma la locuzione “compresi i dirigenti” ed introducendo il comma 1-quinquies che estende la procedura anche a tali categorie di lavoratori e introduce un sistema sanzionatorio di tipo indennitario, in sostituzione del regime sanzionatorio dettato dal CCNL ed applicato al rapporto lavorativo per i licenziamenti ingiustificati.
L’intervento del Legislatore ha colmato un vuoto normativo che neppure l’interprete aveva potuto sanare. La stessa Corte di Cassazione, infatti, con la recente sentenza 8 marzo 2018 n. 5513 - relativa ad un caso a cui si applicava il vecchio testo dell’art. 24 - aveva escluso l’interpretazione estensiva della disciplina, stante il chiaro dettato normativo della Legge 223/91.
Nel caso esaminato dalla sentenza in commento, il dirigente, licenziato senza preavviso il 12 giugno 2015 (e dunque, dopo l’entrata in vigore della nuova normativa), aveva impugnato il licenziamento nell’ambito di un procedimento di opposizione allo stato passivo, sostenendo che il datore di lavoro (fallito) non aveva comunicato l’avvio della procedura di mobilità per cessazione dell’attività anche alla associazione di categoria di cui egli apparteneva, ossia Federmanager.
Il Tribunale aveva rigettato l’opposizione del dirigente, ritenendo che fosse sufficiente l’inoltro della comunicazione datoriale di avvio della procedura alla R.S.U. ed alle associazioni sindacali di categoria (FIM-CISL-Fiom, CGIL, Uilm Uil), dovendosi considerare le stesse rappresentative di tutti i lavoratori operanti nel settore merceologico dell’impresa, a prescindere dalla loro categoria di appartenenza. Inoltre, il Tribunale sosteneva la violazione formale lamentata dal dirigente non avesse arrecato al medesimo alcun danno.
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso del dirigente, chiariva che l’azienda aveva violato l’art. 24 del Legge 223/1991, nella sua nuova formulazione, dovendosi ritenere che solamente l’associazione di categoria dei dirigenti e/o la loro RSA fosse legittimata a ricevere la comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo e partecipare alla consultazione sindacale. Infatti, solo Federmanager può essere l’Organizzazione Sindacale di riferimento per il lavoratore dirigente, in quanto (si legge) unico soggetto capace di “accreditarsi come interlocutore stabile dell’imprenditore” e, nel contempo, firmatario del CCNL applicabile.
Sulla scorta del nuovo art. 24, la Suprema Corte ha necessariamente riconosciuto al dirigente licenziato il diritto al regime sanzionatorio previsto da tale norma.
Infatti, nel caso di accertata illegittimità del licenziamento di un dirigente per violazione dell’art. 24, quest’ultimo ha diritto al pagamento di una indennità aggiuntiva, compresa tra le dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, che il giudice del merito può determinare discrezionalmente, nell’ambito di questa forbice, e ciò indipendentemente dalla prova del danno.
In sostanza, la sentenza in commento conferma il principio di legge, ormai a tutti gli effetti operante dal 2014, per cui, sotto il profilo del licenziamento collettivo, il dirigente è e deve essere trattato come tutti gli altri lavoratori. Nei suoi confronti devono essere rispettati gli obblighi di consultazione e di informazione preventiva del tutto analoghi a quelli riservati agli operai, impiegati e quadri, ma specialmente i criteri selettivi di cui all’art. 5 della Legge 223/91.
Certo, la nuova disciplina rappresenta una complicazione nella gestione degli esuberi, specialmente per le grandi aziende. Nei primi anni di applicazione della nuova normativa, si è visto che la differenza dei ruoli e delle problematiche occupazionali sottese al rapporto dirigenziale suggerisce lo svolgimento di consultazioni sindacali separate e parallele, con inevitabile aggravio operativo, tanto più in ragione dei tempi stretti di esaurimento della procedura.
Altro aspetto potenzialmente problematico riguarda i criteri di scelta. Una volta che i dirigenti in esubero sono inclusi nella procedura di licenziamento collettivo, ciò significa che necessariamente, per l’individuazione dei dirigenti da licenziare - in assenza di auspicabile accordo sindacale o di accordi individuali di risoluzione consensuale incentivata del rapporto - devono trovare applicazione i criteri di scelta di cui all’art. 5 Legge 223/91, ed in particolare quello dei carichi di famiglia e dell’anzianità. E’ indubbio che, laddove l’azienda dovesse trovarsi ad applicare tali criteri a profili dirigenziali, la stessa sarebbe costretta a trascurare valutazioni necessariamente discrezionali, connesse alle esigenze tecnico produttive, anteponendo aspetti oggettivi che mal si conciliano con la natura spiccatamente fiduciaria del rapporto di lavoro dirigenziale. E ciò vale in particolare con riferimento alle posizioni apicali che, in base alla nuova normativa, in ipotesi di esubero sarebbero comunque incluse anch’esse nell’ambito della procedura.
Infine, un aspetto da non sottovalutare riguarda il regime sanzionatorio correlato alla violazione di tale disciplina. Laddove la procedura di licenziamento collettivo non includa i dirigenti, questi ultimi non possono chiedere la reintegrazione che, invece, spetta ai lavoratori con qualifica non dirigenziale, ai quali sia applicabile l’art. 18 St. Lav., in ipotesi di violazione dei criteri di scelta.
Per i dirigenti è previsto il riconoscimento di un’indennità, compresa tra dodici e ventiquattro mensilità, commisurata alla natura ed alla gravità della violazione. La decisione sul quantum spetta discrezionalmente al giudice il quale non deve per forza di cose basarsi sull’anzianità di servizio. Il regime sanzionatorio previsto dalla nuova normativa è, quindi, di tutto rispetto e può comportare, a favore dei dirigenti, un indennizzo superiore all’indennità supplementare prevista in ipotesi di licenziamento ingiustificato dalla contrattazione collettiva di categoria.
Le aziende che avviano procedure di riorganizzazione con esuberi che non coinvolgono nei tempi e modi corretti la rappresentanza sindacale dei dirigenti rischiano, dunque, di pagare un caro prezzo.