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L’eccesso di formalismi nel giudizio di Cassazione e le censure della Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU)

A cura di Bonaventura Minutolo

La riforma Cartabia interviene, finalmente, sullo spinoso problema degli eccessivi formalismi nel giudizio di Cassazione che, sostanzialmente, negano la reale tutela del diritto al giusto processo.

La Corte Europea dei diritti dell’uomo Sez. I, con decisione del 28 ottobre 2021, ric. n. 55064 n. 37781 ha statuito “essere effetto di eccessivo formalismo e pertanto viola l’art. 6, par. 1 della Convenzione un’applicazione del principio di autosufficienza che porti alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso qualora la sua lettura, con l’aiuto dei riferimenti ai passaggi della sentenza del giudice di appello e ai documenti rilevanti citati nel ricorso, permetta di comprendere l’oggetto e lo svolgimento del procedimento nei gradi di merito, nonché la portata dei motivi svolti, sia per quanto riguarda il loro fondamento giuridico (i.e il tipo di censura proposta tra quelle previste dall’art. 360 del c.p.c.) sia il loro contenuto".

È noto - al riguardo, che le decisioni della Corte Europea dei diritti dell’Uomo - non prevedono la condanna al risarcimento dei danni nell’ipotesi di accoglimento del ricorso, mentre - per tale condanna - occorrerebbe adire il Collegio dei Ministri, i quali, ovviamente, non sono, frequentemente, nelle condizioni di valutare il merito del ricorso per Cassazione non esaminato per eccesso di formalismi.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, di fronte ai ripetuti accoglimenti da parte della CEDU di ricorsi sullo stesso tema, con sentenza in data 30.11.2021 n. 37552, ha inviato alle singole sezioni un chiaro messaggio contro gli eccessivi formalismi, laddove rileva che “l’eccessiva lunghezza e una farraginosità del ricorso non ne comportano l’inammissibilità tutte le volte che l’interpretazione complessiva dell’atto consenta, comunque, di comprendere agevolmente lo svolgimento della vicenda processuale e di individuare con chiarezza la portata delle censure rivolte alla sentenza impugnata”.

In tale situazione di sostanziale stallo, posto che - in sostanza - tutto era rimesso alla sensibilità delle singole Sezioni, quanto al chiaro invito di non indulgere sugli asseriti obblighi formali, purchè fosse evincibile dal ricorso il sostanziale vizio denunciato (alla luce - peraltro - di un ricorso redatto secondo i criteri convenuti tra il Presidente della Suprema Corte e quello del Consiglio Nazionale Forense) si rendeva necessario predisporre uno strumento per garantire il rispetto dei predetti principi enunciati dalla CEDU, che non poteva che riguardare l’Istituto della revocazione, come, in effetti, la riforma Cartabia ha previsto.

In altri termini, la riforma prevede che sia esperibile il rimedio della revocazione (ex art. 395 c.p.c.) nel caso in cui, una volta formatosi il giudicato, il contenuto della sentenza sia successivamente dichiarato dalla CEDU - in tutto o in parte - contrario alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ovvero a uno dei suoi protocolli e non sia possibile rimuovere la violazione tramite tutela per equivalente.

Il termine per l’impugnativa è di 90 giorni che decorre dalla comunicazione o, in mancanza, dalla pubblicazione della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo ai sensi del regolamento della Corte stessa.

Si può dire, infine, che tanto tuonò che piovve.

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