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La nozione di insubordinazione nell'elaborazione della giurisprudenza di legittimità

Di Antonio Cazzella

 

La recente sentenza n. 13411 del 1° luglio 2020, pronunciata dalla Corte di Cassazione in una fattispecie di licenziamento disciplinare, offre lo spunto per una breve riflessione sulla nozione di insubordinazione elaborata dalla giurisprudenza di legittimità.

Nel caso esaminato, è stata confermata la decisione della Corte di merito, che ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore, il quale aveva minacciato la responsabile dell’ufficio amministrativo nel corso di una discussione, insorta per la restituzione di una chiavetta utilizzata al distributore di caffè; in particolare, il lavoratore aveva chiuso la porta dell’ufficio della responsabile, pronunciando la frase “prima o poi, in sede più consona, dovrò farti un discorso” e puntando il dito contro l’interlocutrice.

Riguardo il tema dell’insubordinazione, l’ipotesi più comune consiste nell’inadempimento, da parte del lavoratore, di direttive aziendali, come recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione, che ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore che si era rifiutato di cambiare la squadra di lavoro (Cass. 4 febbraio 2020, n. 2515).

Con la citata sentenza n. 13411/2020 la Suprema Corte ha confermato l’orientamento secondo cui la nozione di insubordinazione, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, “non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale”.

La Corte di Cassazione ha evidenziato che la violazione dei doveri del prestatore riguarda non solo la diligenza in rapporto alla natura della prestazione, ma anche l’inosservanza delle disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore o dai suoi collaboratori.

Nella sentenza in esame la Suprema Corte ha rilevato, inoltre, che l’insubordinazione non può essere esclusa per il fatto che la condotta addebitata al lavoratore sia avvenuta al di fuori dall’orario di lavoro, in quanto il comportamento contestato si era verificato in locali aziendali e, comunque, la vicenda riguardava l’osservanza di disposizioni interne del datore di lavoro inerenti l’utilizzo di beni aziendali.

Inoltre, la Suprema Corte ha precisato che una condotta extralavorativa è comunque suscettibile di assumere rilievo disciplinare, in quanto l’art. 2104 cod. civ. (che impone al lavoratore un obbligo di diligenza secondo la particolare qualità dell’attività dovuta) e l’art. 2105 cod. civ. (che impone al lavoratore un obbligo di fedeltà) “non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto di lavoro”.

Secondo l’interpretazione della Suprema Corte l’insubordinazione può anche risultare da una “somma” di diverse condotte e non necessariamente da un singolo episodio, in quanto assume rilievo, ai fini della giusta causa di recesso, anche un comportamento contraddistinto da un costante e generale atteggiamento di sfida e di disprezzo nei confronti dei superiori gerarchici e della disciplina aziendale (cfr. Cass. 13 settembre 2018, n. 22382).

Inoltre, l’insubordinazione si può configurare anche nell’ipotesi di illegittima ingerenza del dipendente nell’ambito dell’organizzazione aziendale: la Suprema Corte ha, infatti, confermato la legittimità del licenziamento intimato ad una lavoratrice, che aveva imposto nuove direttive in merito alla gestione degli ordini senza discuterne con la Direzione aziendale, ponendo quindi in essere un comportamento idoneo a contestare pubblicamente il potere direttivo del datore di lavoro (Cass. 27 marzo 2017, n. 7795).


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