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La mancata assegnazione al dipendente degli obiettivi non è sufficiente a determinare il diritto al risarcimento del danno

La mancata assegnazione al dipendente degli obiettivi non è sufficiente a determinare il diritto al risarcimento del danno

A cura di Antonio Cazzella

Con la recente sentenza n. 2293 del 30 gennaio 2018, la Corte di Cassazione ha confermato un orientamento che sembra ormai consolidato, affermando che, ove sia prevista una parte variabile della retribuzione, la mancata assegnazione al dipendente degli obiettivi non è sufficiente per ottenere il risarcimento del danno.

In passato, la giurisprudenza ha ritenuto che la mancata assegnazione degli obiettivi fosse, di per sé, sufficiente ad attribuire al dipendente il diritto di percepire la retribuzione variabile, richiamando le previsioni dell’art. 1359 cod. civ. - secondo cui la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento della stessa – e dell’art. 1358 cod. civ., che impone all’obbligato, in pendenza della condizione, di comportarsi secondo buona fede.

Con la sentenza in esame la Suprema Corte ha, invece, argomentato che il danno patrimoniale da perdita di chance è un danno (non già attuale, ma) futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale (Cass. 12 febbraio 2015, n. 2737). Esso consiste in una concreta ed effettiva occasione perduta di conseguire un determinato bene, non in una mera aspettativa di fatto, ma in un'entità patrimoniale a sè stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di valutazione autonoma, che deve tenere conto della proiezione sulla sfera patrimoniale del soggetto (Cass. 25 agosto 2014, n. 18207; Cass. 20 giugno 2008, n. 16877)”.

In particolare, la Suprema Corte ha evidenziato che “la sussistenza di un tale pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare), consistente nella perdita di una possibilità attuale, esige la prova, anche presuntiva, purchè fondata su circostanze specifiche e concrete dell'esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, della sua attuale esistenza (Cass. 30 settembre 2016, n. 19604; Cass. 31 maggio 2017, n. 13818)”.

Viene, dunque, sostenuto un principio di carattere generale, secondo cui la mera violazione di un obbligo contrattuale non è sufficiente a determinare un danno, che deve essere provato.

Pertanto, il dipendente deve allegare e dimostrare, almeno in via presuntiva, che egli avrebbe potuto raggiungere, in tutto o in parte, gli obiettivi qualora gli stessi fossero stati assegnati, con conseguente valutazione equitativa delle somme spettanti ove tale prova venga fornita.

In ogni caso, è opportuno ricordare che, per verificare l’adempimento di tali oneri probatori, si può anche tener conto, in base ai principi generali in materia di interpretazione del contratto, di quanto eventualmente stabilito nella lettera di assunzione nonché del comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto di lavoro (art. 1362 cod. civ.).

Ad esempio, nel caso in cui la lettera di assunzione faccia espresso riferimento ad obiettivi (da fissare) che siano collegati ad incrementi di fatturato, l’adempimento di tali oneri probatori si presenta certamente difficoltoso nel caso in cui tali obiettivi non vengano assegnati perchè l’azienda è in perdita.

Con riferimento al comportamento delle parti, potrebbe accadere, ad esempio, che sia stato pattuito un compenso variabile al raggiungimento di obiettivi e, tuttavia, il datore di lavoro abbia corrisposto al dipendente (magari, in più occasioni) tale compenso senza fissarli: in tal caso, infatti, gli oneri probatori del dipendente risultano più attenuati.

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