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T&P Magazine

Infortunio sul lavoro e onere della prova

di Anna Minutolo

(Corte d’Appello di Ancona, 15 luglio 2022, n. 189)

Con una recente sentenza, la Corte d’Appello di Ancona ha ritenuto che grava sul lavoratore, il quale lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché la connessione tra l’uno e l’altra, mentre incombe sul datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del pregiudizio subito, ovvero che la malattia non è ricollegabile alla violazione degli obblighi a suo carico; ciò sia che si qualifichi la domanda in termini di responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., sia che si lamenti la violazione del principio del “neminem laedere” ai sensi dell’art. 2043 c.c..

Il Collegio, richiamata la giurisprudenza della Suprema Corte in tema di responsabilità contrattuale, ha ribadito che la responsabilità dell’imprenditore  può essere affermata se sussiste una lesione del bene tutelato che derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle circostanze sperimentali o tecniche e che, quindi, la verificazione del danno non è di per sé sufficiente a far scattare a carico dell’imprenditore l’onere probatorio di aver adottato ogni sorta di misura idonea ad evitare l’evento, atteso che la prova liberatoria a suo carico presuppone sempre la dimostrazione che vi sia stata omissione nel predisporre le  misure di sicurezza (suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica) necessarie ad evitare il danno, che siano in concreto esigibili, mentre non può essere estesa ad ogni ipotetica misura di prevenzione, a pena di far scadere una responsabilità per colpa in una responsabilità oggettiva.

Nella valutazione del caso concreto, la Corte anconetana ha ritenuto che l’appellante non aveva fornito sufficiente prova, il cui onere ricadeva su di lei, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno, che fossero in concreto esigibili con gli standard di sicurezza suggeriti dalle conoscenze del tempo e di normale adozione nel settore.

In particolare, il Collegio ha osservato che le modalità con cui è avvenuto l’infortunio non erano state dimostrate nella loro dimensione storico - fattuale, atteso che vi era contrasto tra la ricostruzione dell’infortunio svolta dall’appellata e di quella operata dall’appellante e ha ritenuto che l’accertamento della esatta dinamica dell’infortunio, nel caso di specie, aveva rilievo dirimente nello stabilire l’esatto adempimento datoriale all’obbligo di sicurezza, in quanto l’art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva (Cass., 29 aprile 2022, n. 13640; Cass., 8 ottobre 2018, n. 24742; Cass., 19 ottobre 2018, n. 26495).

La carenza di prova, nel caso in esame, era dovuta al fatto che l’appellante aveva proposto tardivamente (solo alla prima udienza del giudizio di primo grado) le sue istanze istruttorie circa la dinamica dell’infortunio; più precisamente, la Corte d’Appello di Ancona ha osservato che la richiesta di prova orale formulata dalla lavoratrice, in relazione alla dinamica dell’infortunio, doveva essere qualificata come prova diretta, la cui indicazione specifica andava effettuata nel ricorso, a norma dell’art. 414 n° 5 c.p.c..

Il Collegio, ha poi rilevato che le carenze probatorie, conseguenti alla tardività delle richieste istruttorie dell’appellante, non potevano in alcun modo essere sanate attraverso l’esercizio, da parte del giudice, dei poteri officiosi previsti dall’art. 421 c.p.c., i quali, come noto, non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, sanando le preclusioni e le decadenze in cui queste sono già incorse, le quali operano inderogabilmente in danno delle parti onerate e sono rilevabili anche d’ufficio.

La Corte Anconetana ha, altresì, precisato che le carenze istruttorie dell’appellante non potevano essere sanate nemmeno ai sensi dell’art. 420, quinto comma, c.p.c., perché a differenza di quanto sostenuto dalla lavoratrice, la circostanza che la Società avesse formulato una proposta di composizione bonaria della controversia non andava interpretata come un espresso atto di ammissione di responsabilità.

In particolare, il Collegio ha precisato che la proposta della Società di composizione bonaria della lite (non accettata dalla lavoratrice) mirava esclusivamente ad evitare l’alea ed i costi dell’accertamento dei fatti in sede giudiziale e, per tale motivo, a detta proposta non poteva attribuirsi alcun connotato confessorio.

Ciò comporta che nessun affidamento tutelabile poteva riconoscersi in favore della lavoratrice circa la sussistenza di una ammissione di responsabilità della Società in ordine alla dinamica dell’infortunio, che, quindi, l’appellante aveva l’onere di provare in giudizio, previa formulazione di pertinenti e tempestive richieste istruttorie, nei termini e con le modalità di cui all’art. 414, n. 5, c.p.c..


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