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T&P Magazine

Influencer marketing: la difficile qualificazione del rapporto tra azienda e influencer

A cura di Ilaria Pitingolo e Alice Testa

È ormai innegabile come i social-media siano entrati a far parte del quotidiano di ognuno di noi imponendosi come nuovi mezzi di comunicazione di massa capaci di influenzare le decisioni della
collettività e orientare le scelte dei consumatori. L’opportunità offerta da tali nuovi strumenti non è sfuggita alle aziende le quali, per prime, hanno colto la possibilità di indagare attraverso il mondo social sulle preferenze degli utenti e raggiungere un numero astrattamente illimitato di potenziali target cui proporre i propri prodotti o servizi.
In tale contesto si inserisce il sempre più diffuso fenomeno dell’influencer marketing che altro non è che un passaparola tra utenti social capace di dare visibilità ad un prodotto o ad un marchio. E, come è ormai noto, non c’è passaparola più efficace di quello alimentato da utenti del web che vantano un elevato numero di seguaci. Il riferimento è alla categoria dei c.d. influencer: utenti attivi sui social-media che sono in grado di influenzare il pensiero dei propri followers su particolari tematiche o scelte commerciali.
In base alla loro popolarità, gli influencer possono essere classificati in sotto-categorie. Primi fra tutti le c.d. celebrities (personaggi famosi del mondo dello spettacolo o, ad esempio, dello sport); poi i c.d. macro-influencer (che vantano oltre 20.000 followers) ed infine i micro-influencer (che hanno all’incirca tra i 2.000 e i 20.000 followers). Anche se potrebbe sembrare un paradosso è proprio su tale ultimo spaccato di realtà che la maggior parte delle aziende interessate a pubblicizzare e sponsorizzare il proprio brand sta investendo. E questo perché i micro-influencer, spesso giovani o giovanissimi, hanno uno stile di vita vicino a quello dei più e sono percepiti come maggiormente in grado di influenzarne le scelte.
Ciò detto, è sulla natura del rapporto contrattuale tra azienda e influencer che si impone una riflessione. In questa analisi, l’attenzione sarà rivolta prevalentemente ai c.d. micro-influencer, spesso individuati quale parte debole del rapporto contrattuale rispetto alle aziende di cui promuovono il brand e sulle cui tutele si discute ormai da qualche tempo.
Solitamente, l’obbligazione contrattuale dell’influencer si concretizza nell’incarico di provvedere alla promozione di uno o più prodotti o servizi dell’azienda che lo ha ingaggiato tramite la creazione di contenuti di intrattenimento e dietro un corrispettivo economico che può consistere anche nella dazione gratuita dei beni sponsorizzati.
A prima vista, dunque, si tratta a tutti gli effetti di una prestazione d’opera. E tuttavia, data anche l’assenza di una disciplina legislativa ad hoc, il primo e principale problema che ha interessato gli interpreti riguarda la possibilità di inquadrare queste nuove figure professionali nell’orizzonte della contrattualistica tradizionale.
Come infatti è avvenuto qualche anno fa per i ciclo-fattorini (i c.d. riders) ci si trova di fronte alla difficoltà di inquadrare gli influencer in categorie (autonomia, subordinazione o simili) per certi aspetti ormai desuete che mal si conciliano con il crescente impatto della gig-economy sul mondo del lavoro. Nella prassi, il rapporto tra influencer e aziende è solitamente regolato da uno o più accordi con cui il prestatore si obbliga, dietro corrispettivo, a promuovere l’immagine del brand con opera prevalentemente personale, apporto creativo e autonomia di esecuzione. Così descritto il rapporto, sembrerebbe potersi desumere che l’influencer si impegni nella prestazione di un’opera avente le caratteristiche del lavoro autonomo, così come regolato dall’art. 2222 c.c.
Ma, poiché, come è noto, per il corretto inquadramento di un rapporto occorre indagare le sue concrete modalità di attuazione, non può a priori escludersi la possibilità che nell’esecuzione del contratto tra azienda e influencer si ravvisino modalità ed indici potenzialmente atti a mettere in discussione l’autonomia dello stesso.
In linea teorica, pare comunque difficile poter ricondurre la figura dell’influencer a quella di un lavoratore subordinato. E ciò non tanto perché l’influencer sia detentore di partita IVA o perché intrattenga contemporanei rapporti con più aziende, quanto piuttosto perché, di solito, non si rinvengono nell’attività di creazione e pubblicazione di contenuti che connota l’opera dell’influencer gli indici della subordinazione.
L’influencer non soggiace al potere direttivo dell’azienda, ma piuttosto ad un potere di conformazione sull’opera, non è stabilmente inserito nell’organizzazione aziendale, non ha orari prestabiliti o mansioni ben definite, né tantomeno è soggetto al potere disciplinare.
Tuttavia, nella prassi accade, e non di rado, che i micro-influencer debbano comunque uniformarsi a indicazioni provenienti dalle aziende committenti e relative a: contenuto prestabilito del post da pubblicare (talvolta soggetto a preventiva approvazione), giorno e orario di pubblicazione, numero di post da dedicare ad un determinato prodotto, piattaforma su cui condividere il contenuto, etc… In questi casi, la particolare ingerenza dell’azienda committente nell’organizzazione dell’attività, potrebbe determinare (proprio come accaduto per i riders) l’applicazione dell’art. 2 del D.lgs. 81/2015. Tale norma prevede che, nell’ambito di un rapporto di collaborazione, l’etero-organizzazione aziendale giustifichi l’estensione al collaboratore delle tutele e della disciplina del lavoro subordinato. Al riguardo, possiamo affermare che solo la verifica delle concrete modalità di svolgimento del rapporto consente di esprimere una valutazione completa in merito alla natura della collaborazione. Inoltre, va anche considerato come la collaborazione potrebbe assumere le caratteristiche di una prestazione continuativa nel tempo, realizzata attraverso modalità di attuazione concordate con il committente. In questi casi, troverebbe attuazione la disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative previste dall’art. 409, comma 3, c.p.c. Il riferimento a tale norma potrebbe essere ancor più calzante se si pensa alle analogie, seppur sfumate, rinvenibili tra la prestazione dell’influencer e quella dell’agente di commercio: entrambe tali figure hanno in comune, infatti, quale scopo della loro attività, la promozione della vendita di un prodotto, differenziandosi in ragione del fatto che l’influencer non si spinge sino a porre in essere gli atti prodromici alla conclusione del contratto. Inoltre, talvolta accade - proprio come per le provvigioni degli agenti - che l’influencer riceva, oltre ad un compenso definibile come fisso, una componente variabile dello stesso dipendente, ad esempio, dal numero di vendite generate dall’attività di sponsorizzazione sui social.
Da questa breve - e di certo non esaustiva - panoramica emerge come concreta la difficoltà di inquadrare, perlomeno astrattamente, la figura dell’influencer in una delle tradizionali categorie. Per una corretta qualificazione del rapporto contrattuale e per individuare quali siano in concreto le modalità che lo caratterizzano, non si potrà dunque prescindere da una analisi particolareggiata delle singole fattispecie.
Ed allora appare più che mai fondamentale che - nella fase negoziale di un contratto con un influencer - le aziende approntino cautele ed accorgimenti utili ad una corretta qualificazione del sinallagma definendone oggetto, durata e corrispettivo senza dimenticare di prestare particolare attenzione alle modalità di esecuzione concreta della prestazione.
Certo è che, al di là degli sforzi classificatori, resta un dato di fatto: il mondo dell’influencer marketing cresce ogni giorno di più ed è strumento sempre più utilizzato dalle aziende che vedono nei social-media la nuova frontiera della pubblicità. Ne consegue, dunque, l’opportunità di definire una regolamentazione per quello che non può più essere inteso come un mero hobby ma, piuttosto, come un vero e proprio mestiere.
Non a caso, nel 2019 è nata Assoinfluencer, una associazione di categoria che si pone come obiettivo la tutela dei diritti e delle prerogative degli influencer e che, recentemente, ha iniziato una campagna di tesseramento per i propri iscritti; poco dopo, anche l’Associazione Nazionale dei Lavoratori Autonomi ha costituito il S.I.I.C.C. (Sindacato Italiano degli Influencer e dei Content Creator) altra associazione di categoria per influencer e content creator. L’auspicio di tali associazioni è che le esigenze di tutela degli influencer possano divenire oggetto di attenzione e di studio da parte del mondo istituzionale e della contrattazione collettiva.
Da ultimo, anche il nostro legislatore, con la Legge 5 agosto 2022 n. 118 (c.d. D.L. Concorrenza), ha iniziato a mostrare una qualche attenzione nei confronti dei creatori di contenuti digitali delegando il Governo “all’individuazione di specifiche categorie per i creatori di contenuti digitali, tenendo conto dell'attività economica svolta”. Tale normativa anche se non strettamente inerente all’ambito giuslavoristico, può essere un segnale, seppur embrionale, di un primo passo verso la regolamentazione della materia.

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