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In caso di licenziamento la mancata prova del fatto contestato equivale alla sua insussistenza e dà luogo alla tutela reintegratoria

A cura di Tiziano Feriani

Se il fatto contestato ad un dipendente e posto a fondamento del recesso aziendale non è stato dimostrato in giudizio dalla società datrice di lavoro – su cui grava in toto il relativo onere probatorio – tale fatto deve essere ritenuto insussistente, con rilevanti conseguenze sulla tutela applicabile alla fattispecie.

È quanto emerge dalla recente ordinanza n. 36188 del 12 dicembre 2022, con cui la Corte di Cassazione, dopo aver enunciato il suddetto principio, ha cassato la sentenza emessa dalla Corte d’Appello de L’Aquila, la quale – in modo del tutto illogico e contraddittorio – aveva ritenuto che alla mancata prova del fatto contestato dovesse conseguire l’applicazione della tutela indennitaria forte di cui all’art. 18, comma 5, della legge n. 92/2012, anziché della tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4.

Nel caso in esame, al dipendente era stato contestato, da un lato, di avere utilizzato, ai fini di giustificare un’assenza per malattia, un certificato medico recante una falsa attestazione del sanitario circa l’avvenuta sottoposizione a visita del paziente e, dall’altro, di essere venuto meno al dovere di diligenza a causa dello scarso rendimento determinato dalla eccessiva morbilità, poiché egli – pur non avendo superato il periodo di comporto – aveva, comunque, usufruito di ben 210 giorni di malattia nell’ultimo triennio e, quindi, la società non aveva potuto utilizzare proficuamente la sua prestazione lavorativa.

Al riguardo, la Corte d’Appello aveva ritenuto infondato solo quest’ultimo addebito, rilevando correttamente – sulla base di precedenti pronunce rese in sede di legittimità – che l’art. 2110 cod. civ. in tema di comporto è una norma speciale e, in quanto tale, prevale sulla disciplina dei licenziamenti individuali, con la conseguenza che lo scarso rendimento e l’eventuale disservizio aziendale determinato dalle assenze per malattia del lavoratore non possono, in ogni caso, legittimarne il licenziamento prima del superamento – da parte del medesimo – del periodo di comporto previsto dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità.

Quanto, invece, al primo addebito sopra illustrato – ovvero il preteso mancato espletamento della visita medica da parte del sanitario ed il consapevole utilizzo, ad opera del dipendente, del certificato medico recante tale presunta falsa attestazione – la Corte d’Appello aveva evidenziato che dall’istruttoria era emerso che: a) sul certificato di malattia era indicata, quale data della visita medica, il 26 luglio 2019, senza alcuna specificazione dell’orario; b) tale certificato era stato immesso nel sistema informatico dell’INPS alle ore 8.06 del 26 luglio 2019; c) la relazione investigativa, svolta su richiesta della società, aveva accertato che il lavoratore, in tale giornata, non era uscito da casa tra le ore 7.31 e le ore 12.00 (salvo che alle ore 8.23 per depositare la spazzatura in un bidone).

Alla luce di quanto sopra, per quanto improbabile, non si poteva escludere che il dipendente fosse stato sottoposto a visita medica in orario anteriore alle ore 7.30.

Sulla scorta di ciò, la Corte aveva considerato non provato il fatto contestato al lavoratore e, inoltre, aveva affermato che – nel caso di sussistenza del medesimo – vi sarebbero stati, in ispecie, alcuni elementi che ne avrebbero, comunque, mitigato la gravità (si sarebbe trattato, infatti, di un’infrazione che avrebbe avuto ad oggetto un episodio circoscritto, concentrato in un lasso di tempo ben delimitato e presumibilmente privo di intenzionalità lesiva, non foriero di un apprezzabile pregiudizio patrimoniale ai danni del datore di lavoro e sostanzialmente isolato nella storia lavorativa del dipendente), con la conseguenza che la sanzione espulsiva risultava, comunque, sproporzionata; in ragione di quanto sopra, la Corte – in applicazione dell’art. 18, comma 5, della legge n. 92/2012 – aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro e condannato la società datrice al pagamento, in favore del dipendente, di un’indennità risarcitoria pari a 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Con l’ordinanza in esame, il Supremo Collegio ha cassato la suddetta pronuncia con rinvio alla stessa Corte d’Appello in diversa composizione, rilevando che la stessa era inficiata da un grave errore, perché la questione circa la sussistenza o meno del fatto contestato e posto alla base del licenziamento è decisiva ai fini della determinazione della tutela applicabile alla fattispecie.

Pertanto, se – come accertato dalla Corte d’Appello nel caso in esame – la società datrice di lavoro non era stata in grado di dimostrare la sussistenza del fatto addebitato al dipendente, detto fatto doveva necessariamente essere considerato insussistente, con la conseguenza che il lavoratore illegittimamente licenziato aveva diritto alla tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, della legge n. 92/2012.

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