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Il licenziamento intimato all’esito della procedura di conciliazione dell’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 non è per ciò solo ritorsivo

A cura di Marina Tona

Con la recente sentenza n. 2117 del 24 gennaio 2023, la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sul tema del licenziamento ritorsivo ribadendo il principio, già affermato da numerose pronunce della stessa Corte e della giurisprudenza di merito, per il quale nel caso in cui il lavoratore licenziato, per motivi disciplinari od oggettivi, alleghi la nullità del licenziamento perché ritorsivo, grava sul lavoratore l’onere della prova che l'intento ritorsivo del datore di lavoro, sia determinante, cioè tale da costituire l'unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale (cfr. tra le decisioni più recenti Cass. 27 giugno 2022, n.20530; Cass. 27 gennaio 2022, n.2414 e, tra le decisioni di merito più recenti, Trib. Cuneo 4 agosto 2022, n.93; Trib. Parma 1 giugno 2022, n.90).

La peculiarità della sentenza in commento deriva dal fatto che nel caso sottoposto all’esame della Corte il licenziamento impugnato dal lavoratore era stato intimato dalla Società per giustificato motivo oggettivo all’esito della procedura prevista dall’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, novellato dall’art. 1, co. 40, della L 28 giugno 2012, n. 92 (cd. legge Fornero) e il lavoratore aveva addotto, tra l’altro, la ritorsività del recesso proprio per il suo rifiuto di trovare un accordo nell’ambito di tale procedura (oltre che come reazione ad una causa avviata dal lavoratore per il pagamento di differenze retributive).

Com’è noto, ai sensi dell’art. 7, co. 7, l. n. 604/66 cit., il datore di lavoro - che occupi più di 15 lavoratori nella singola unità produttiva o in ambito comunale o più di 60 a livello nazionale - che intenda procedere ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve inviare all’Ispettorato territoriale del Lavoro del luogo dove il lavoratore presta la propria opera e, per conoscenza, al lavoratore stesso, una comunicazione nella quale deve “dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione dei lavoratori interessati”.

L’Ispettorato del lavoro, entro il termine di 7 giorni dalla ricezione della richiesta, deve convocare le parti davanti alla Commissione provinciale di conciliazione per il tentativo di conciliazione.

Se il tentativo fallisce, o comunque decorsi i termini della procedura (che deve concludersi entro 20 giorni dal momento della convocazione, salvo diverso accordo delle parti), il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore con effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato, ex art. 1, co. 41 della legge Fornero, salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva (ricordo, per inciso, che se, viceversa, la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, il lavoratore mantiene il diritto a percepire la cd. Naspi, in deroga alla disciplina generale in forza di quanto espressamente previsto dall’art. 7, co. 7, l. n. 604/66 cit.).

Il Tribunale in sede sommaria e all’esito dell’opposizione aveva escluso il carattere ritorsivo del licenziamento e ritenuto sussistente il giustificato motivo oggettivo posto a base dello stesso rappresentato da difficoltà economiche della Società.

La Corte d’appello, invece, aveva accolto il reclamo del lavoratore, ritenendo il licenziamento ritorsivo in quanto surrettiziamente giustificato da difficoltà economiche che la Società non era stata in grado di dimostrare ma, secondo la Corte d’Appello, intimato come reazione al contenzioso avviato dal lavoratore.

La Società ha impugnato la sentenza evidenziando che il Giudice del reclamo avrebbe erroneamente valorizzato i tempi di avvio della procedura ex art. 7, l. n. 604/66 e quelli di promozione dell’azione giudiziaria da parte del lavoratore, senza considerare che il ricorso del lavoratore era stato notificato alla Società solo a procedura di licenziamento già avviata.

La Suprema Corte ha cassato la sentenza d’appello evidenziando che “il procedimento per l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo inizia ... con quella manifestazione di volontà, già delineata nei suoi contorni, che è oggetto della comunicazione che deve essere inoltrata alla commissione territoriale per attivare la preventiva procedura di conciliazione ed è a quel momento che deve in primo luogo aversi riferimento per valutare se la scelta datoriale sia improntata o meno ad un intento ritrosivo”.

Nel caso in esame, invece la Corte d’appello non aveva esaminato il contenuto e i tempi della comunicazione di avvio della procedura di conciliazione ex art. 7, l. n. 604/66, ancorché depositata dalla Società, comunicazione che, secondo la Corte, può essere decisiva per stabilire “se sussista o meno un nesso di consequenzialità tra la scelta datoriale di procedere al licenziamento - manifestata proprio con tale comunicazione e perfezionatasi con il licenziamento intimato per effetto della mancata conciliazione stragiudiziale - e la successiva e in parte parallela azione giudiziaria intrapresa dal lavoratore”.

In sede di giudizio di rinvio, la Corte d’appello dovrà, dunque, riesaminare la controversia tenendo conto del dato di fatto rappresentato dalla comunicazione di avvio della procedura di licenziamento e della sua incidenza ritrosiva o meno sulla scelta del datore di lavoro verificando, in ogni caso, l’effettività delle ragioni economiche poste a base del recesso che, se dimostrate, escluderebbero il carattere ritorsivo del recesso atteso che, come già evidenziato, l'intento ritorsivo del datore di lavoro – che può essere provato anche mediante presunzioni semplici - deve essere il motivo unico e determinante del recesso.

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