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T&P Magazine

Gli atti nel nuovo processo civile e l’art. 46 disp. att. c.p.c.: forme libere o vincolate?

A cura di Francesco Cristiano

Il dibattito sulla chiarezza e la sinteticità degli atti processuali è destinato a rinvigorirsi alla luce dei nuovi artt. 121 c.p.c. e 46 disp. att. c.p.c. – introdotti dal D.Lgs. n. 149/22 emesso in attuazione della L. n. 206/21 – che entreranno in vigore il 28 febbraio 2023.

Le nuove norme rappresentano l’esito finale di un percorso in senso lato normativo, stratificatosi in più fasi.  Senza pretese di completezza, da tempo chiarezza e sinteticità sono attributi degli atti del processo amministrativo: al riguardo, l’art. 3 comma 2 del codice del processo amministrativo – di cui al D.Lgs. n. 104/10 – dispone che “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”. Si tratta di una norma che, in tempi relativamente recenti, la Corte di Cassazione ha ritenuto, peraltro, espressione di un principio generale del diritto processuale, operante anche nei giudizi civili (cfr., ad esempio: Cass. 21 marzo 2019, n. 8009; Cass. 20 ottobre 2016, n. 21297).

Nell’ambito specifico delle norme del processo civile telematico, poi, il D.L. 183/15 (convertito con L. 132/15), aveva introdotto il comma 9-bis all’art. 16-bis del D.L. 179/12 (convertito con L. 221/12), secondo il quale “Gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica”. La disposizione è stata, per inciso, abrogata dal D.Lgs. 149/22, per essere sostituita da quelle nuove del codice di procedura, di cui si dirà tra un momento.

Per quanto riguarda i giudizi civili di legittimità, è noto, inoltre, come – proprio per dare attuazione ai richiamati principi di chiarezza e sinteticità degli atti – il 17 dicembre 2015 fosse stato sottoscritto un protocollo dal Presidente della Corte di Cassazione e dal Presidente del Consiglio Nazionale Forense, contenente indicazioni tecniche per la redazione di ricorsi e controricorsi. Il protocollo evidenzia che il mancato rispetto delle indicazioni nello stesso contenute, in special modo quanto alla lunghezza degli scritti difensivi, non determina, di per sé, l’inammissibilità di questi ultimi, ma specifica anche che “la eventuale riscontrata e motivata infondatezza delle motivazioni addotte per il superamento dei limiti dimensionali indicati, pur non comportando inammissibilità del ricorso (o atto difensivo) che la contiene, può essere valutata ai fini della liquidazione delle spese”. È in un quadro come quello sopra sommariamente richiamato che si inserisce il novellato art. 121 c.p.c., neo-rubricato “Libertà di forme. Chiarezza e sinteticità degli atti”. Nell’articolo, collocato nel libro I del codice di procedura civile dedicato alle “Disposizioni generali”, è stata ora introdotta la previsione, aggiunta a quella previgente, secondo cui “tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”.

Fin qui nulla di eccezionalmente nuovo, se non che chiarezza e sinteticità assurgono a connotati qualificanti gli atti del processo civile, attraverso una norma di portata generale.

La novità di maggior rilievo è, invero, un’altra ed essa – con scelta, a mio parere, alquanto discutibile – è stata relegata dal Legislatore della Riforma alle disposizioni di attuazione del codice procedurale, così finendo per passare piuttosto inosservata.

L’art. 46 disp. att. c.p.c. prevede, infatti, che “il Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, definisce con decreto gli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo. Con il medesimo decreto sono stabiliti i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. Nella determinazione dei limiti non si tiene conto dell’intestazione e delle altre indicazioni formali dell’atto, fra le quali si intendono compresi un indice e una breve sintesi del contenuto dell’atto stesso. Il decreto è aggiornato con cadenza almeno biennale … Il giudice redige gli atti e i provvedimenti nel rispetto dei criteri di cui al presente articolo”.

La redazione di “schemi informatici” di atti, delegata ad una normazione di secondo livello, impatterà – è agevole prevederlo – in modo significativo sul modo di lavorare degli avvocati (oltre che, ma in misura verosimilmente più attenuta, su quella dei giudici).

Ciò non è necessariamente un male, ovviamente. C’è però da chiedersi quanto la stan-dardizzazione degli atti processuali e la pretesa di ricondurre gli stessi a modelli o a formulari siano compatibili con il principio di libertà di forme, che continua ad essere sancito dall’art. 121 c.p.c. . Ed inoltre, quanto sia effettivamente possibile e, prima ancora, auspicabile, per raggiungere l’obiettivo di un processo caratterizzato da atti necessariamente brevi, prestabilire in via generale la lunghezza degli atti stessi. D’altro canto, le controversie sono assai eterogenee per complessità e quantità dei fatti e delle questioni giuridiche, caratteristiche che sono, a loro volta, non integralmente prevedibili al momento dell’instaurazione della lite giudiziaria, bensì frutto della dialettica processuale. Risulta, pertanto, a fortiori difficile immaginare che le liti giudiziarie possano essere catalogate ex ante attraverso regole generali ed astratte allo scopo di determinare i limiti massimi di ampiezza degli atti che di tali liti dovrebbero occuparsi. Per di più, nessun dubita che l’atto ben fatto sia quello proporzionato agli argomenti da trattare e non ripetitivo, ma ciò non significa che quell’atto sia anche per forza breve. Di conseguenza, se il parametro adottato per declinare l’attributo di sinteticità degli scritti difensivi sarà (solo o prevalentemente) il rispetto di un numero predefinito di pagine, la pienezza dei diritti di difesa delle parti potrebbe risultarne lesa. È vero che l’utilizzo degli schemi di atto di fonte ministeriale rimarrà, almeno sulla carta, opzionale, specificando l’art. 46 disp. att. c.p.c. che “il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto non comporta invalidità”. Ma è altresì vero che tale mancato rispetto, sulla base del nuovo art. 46 disp. att. c.p.c., “può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo”.

La novella normativa finisce, in buona sostanza, per determinare una sorta di obbligatorietà strisciante al ricorso agli schemi ministeriali. Il che, comunque la si pensi, segnerà una sorta di rivoluzione copernicana per gli operatori del processo civile.

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