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Divieto di licenziamento del lavoratore che rifiuta il mutamento della fascia oraria del part-time, e configurabilità di un giustificato motivo di recesso

Il difficile equilibrio tra il divieto di licenziamento (ritorsivo) del lavoratore che rifiuta il mutamento della fascia oraria del part-time, e l’eventuale insorgenza del giustificato motivo provocato da tale rifiuto, che potrebbe consentire un licenziamento per ragioni oggettive.

(Tribunale di Ivrea, sentenza 7 maggio 2019)

In materia di diritto del lavoro e part-time, l’art. 6 del d.lgs. 81/2015 prevede che “il rifiuto del lavoratore di concordare una variazione dell’orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento”. Tale norma afferma una regola già prevista dalla precedente normativa sul part-time, e fa da pendant all’art. 8 secondo cui “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.

La ratio di queste disposizioni è facilmente identificabile. Qualunque mutamento dell’orario di lavoro - sia il passaggio da part-time a full time o viceversa, sia una variazione della fascia oraria del part-time - presuppone l’accordo tra le parti e, dunque, il consenso del lavoratore: consenso che non può essere estorto, né ottenuto dietro minaccia di licenziamento.

Di riflesso, è sicuramente illegittimo, perché in contrasto con il divieto di cui si discute, il licenziamento che costituisce una ritorsione del datore di lavoro nei confronti del dipendente che ha rifiutato di aderire a una proposta di modifica dell’orario di lavoro.

D’altro canto, il divieto deve essere applicato cum grano salis, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità e, da ultimo, dalla sentenza in commento. Infatti, poiché il datore di lavoro non può modificare unilateralmente l’orario del lavoratore, se viene meno la possibilità di utilizzare la prestazione lavorativa di quest’ultimo nella fascia oraria originariamente pattuita potrebbe sorgere una ragione oggettiva che legittima il licenziamento per soppressione del posto di lavoro.

Al riguardo, il Tribunale di Ivrea ha chiarito che “l’art. 8, comma 1, d.lgs. 81/2015 (e quindi, a maggior ragione, come l’art. 6, comma 8, d.lgs. 81/2015), non sancisce un divieto assoluto di risoluzione del rapporto di lavoro. Il licenziamento non può essere fondato sul diniego in sé e per sé considerato, ma non è precluso al datore di lavoro l’esercizio del recesso quando il rifiuto alla proposta di trasformazione entri in contrasto con le ragioni di carattere organizzativo che, ai sensi dell’art. 3, legge 604/1966, possono integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Ovviamente il datore di lavoro che licenzi il lavoratore che rifiuta la riduzione d’orario (oppure …  la nuova turnazione) ha l’onere di dimostrare che sussistono effettive esigenze economico-organizzative in base alle quali la prestazione non può essere mantenuta secondo la precedente collocazione oraria, nonché il nesso causale tra le predette esigenze e il licenziamento (Cass., sentenza n. 21875/2015): ciò in ossequio al generale principio secondo cui il giustificato motivo oggettivo richiede non solo la dimostrazione della reale esistenza dei motivi del recesso, ma anche del nesso di causalità tra gli stessi motivi (di per sé non sindacabili ex art. 41 Cost.) e il licenziamento intimato al lavoratore (Cass., sentenza n. 23620/2015; Cass., sentenza n. 9310/2001; Cass., sentenza n. 3030/1999)”.

In sintesi. È illegittimo il licenziamento (che assume un connotato sostanzialmente disciplinare, se non ritorsivo) motivato dal fatto puro e semplice che il lavoratore non ha voluto accettare una modifica dell’orario di lavoro proposta dall’azienda. È invece legittimo il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo quando le mansioni del lavoratore, nella fascia oraria concordata, sono venute meno e - stante il suo rifiuto (di per sé legittimo) di cambiare orario - sussiste altresì l’impossibilità di repechage.

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