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T&P Magazine

Corsi e ricorsi storici - L'involuzione del diritto del lavoro

A cura di Anna Maria Corna

Per circa quarant’anni, tra il 1970 e il 2010 - abbiamo avuto una disciplina del rapporto di lavoro fatta da regole rigide, che non davano spazio alle parti sociali per adattare le norme alle concrete esigenze di un’impresa, nè ai Giudici di decidere con un margine di discrezionalità, onde adeguare la legge al caso concreto, con una giustizia, quindi, anche equa.

Valgano ad esempio, concernendo gli aspetti più rilevanti, in tema di assunzioni e licenziamento: la disciplina in tema di contratti a tempo determinato, con le uniche possibili causali stabilite dall’art. 1 del D. Leg. 368/2001; l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (ancora post la novella della L. n. 108/1990), in base al quale il licenziamento poteva solo essere legittimo, o nullo/illegittimo, nel quel caso l’unico rimedio era la reintegra nel precedente posto di lavoro, oltre il risarcimento del danno. Nel 2011- 2012 vengono emanate   alcune norme che consentono, in determinati casi, significative possibilità di deroga tramite accordi sindacali aziendali (V. art. 8 del D. L. n. 138/2011, c.d. Legge Sacconi) e la c.d. legge Fornero (28 giugno 2012, n. 92) introduce una limitata delega ai contratti collettivi di settore in tema di contratti a tempo determinato (a cui seguirà quasi  una delega “in bianco”, con il D.L. n. 76/2013 , conv. in L. n. 99/2013, che consentiva l’apposizione del termine “in ogni altra ipotesi individuata dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”).

Sempre la L. 92/2012 ha previsto una rilevante modifica all’art. 18 della L. n. 300/70,   introducendo ipotesi di tutela solo c.d. indennitaria, graduata anche in base al tipo di violazione (sostanziale o formale) della disciplina limitativa dei licenziamenti.

Il nuovo testo lasciava, inoltre, un margine di discrezionalità ai giudici, prevedendo la possibilità, ma non l’obbligo, di disporre la reintegra:Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.

Si arriva così al D. Leg. n. 81/2015 (ed agli altri provvedimenti del Job Act), che cerca di razionalizzare la disciplina delle varie tipologie di rapporto di lavoro, con norme finalmente chiare e che, in tema di contratti a tempo determinato e somministazione, fa salve “le diverse disposizioni dei contratti collettivi” (V. art. 19 e 31), intesi come “i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria” (V. art. 51).

Viene anche introdotta, con il D. Leg. n. 23/2015, una nuova disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, per gli assunti dopo il 6 marzo 2015, che privilegia la tutela indennitaria, limitando la reintegra ai casi di licenziamento discriminatorio, nullo, orale, ovvero di provata “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”.

La tutela indennitaria ha poi “paletti” precisi, essendo determinata in base all’anzianità di servizio, da un minimo di 4 mensilità a un massimo di 24, con una riduzione del 50% (ovvero minimo 2 e massimo 12) in caso di violazione di tipo formale.

Questa nuova disciplina viene, però, rapidamente stravolta da interventi legislativi e della Consulta.

Il c.d. Decreto dignità del 2018 (D.L. n. 87/2018, conv. in L. n. 96/2018), modifica il D. Leg. n. 81/2015, riducendo a 12 mesi la possibilità di assumere a tempo determinato senza specificare le ragioni e consente la proroga di ulteriori 12 mesi solo in presenza di fattispecie molto limitate (“a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria”).

Interviene inoltre sul D. Leg. 23/2015, elevando l’indennità risarcitoria, che non può essere inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.

Pressochè contestualmente la Corte Costituzionale, con sentenza 26 settembre-8 novembre 2018, n. 194, ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale della norma in esame espungendo le parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, creando così un monstrum, che non ha uguali nel nostro ordinamento, non essendovi più alcun parametro legato all’anzianità e neppure ad altri indici, sempre previsti dal Legislatore, quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell'attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti (V. art. 18 S.L., art. 8 L. n. 604/1966, art. 28 e 38 del D. Leg. 81/2015); indici che pure la Consulta richiama, come da applicarsi per analogia, ma che non essendo previsti nella norma non vincolano il Giudice.

La Corte costituzionale, che nella predetta sentenza aveva, tra l’altro, basato la dichiarata incostituzionalità sul fatto che una norma rigida non consentiva la “prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia”, è, però, di diverso avviso laddove chiamata a valutare l’art. 18, 5° comma, che demanderebbe ad “una valutazione giudiziale sfornita di ogni criterio direttivo - perciò altamente controvertibile - la scelta tra la tutela reintegratoria e la tutela indennitaria”, per cui dichiara incostituzionale la norma nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare”, invece che “applica altresì” la disciplina di cui al quarto comma dell’art. 18 S.L. (V. Corte Costituzionale sentenza 24 febbraio-1° aprile 2021, n. 59).

Di nuovo motivando su una irragionevolezza del lasciare al Giudice la scelta “tra due forme di tutela profondamente diverse .. rimessa a una valutazione non ancorata a precisi punti di riferimento” (nonostante la Suprema Corte avesse già dato indirizzi precisi in merito – V. tra le tante Cass. sez. Lav. 2/5/2018 n. 10435, Cass. sez. lav. - 11/11/2019, n. 29102, Cass. sez. lav. - 03/02/2020, n. 2366) la Corte Costituzionale, con sentenza 7 aprile-19 maggio 2022, n. 125, ha dichiarato anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, 5° comma limitatamente alla parola “manifesta”, si che ora la reintegra consegue tourt – court nel caso di insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.

E’, quindi, lecito chiedersi quali fattispecie possano ancora rientrare “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo”, per cui “il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”.

E poi in piena estate del 2022 ecco il Decreto trasparenza (D. Leg. 27/06/2022, n. 104, entrato in vigore l’1 agosto), che introduce ulteriori oneri a carico delle imprese, in gran parte di tipo informativo, ma alcuni molto rilevanti e, riteniamo, ben poco valutati dal Legislatore

L’art. 7 del D. Leg. 104/2022, dopo aver stabilito che il periodo di prova non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi (durata massima già prevista dall’art. 4 R.D.L. n. 1825/1924, ancora in vigore ex D. Leg. 179/2009), e che nel rapporto di lavoro a tempo determinato deve essere “proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere”, stabilisce anche che: “In caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova. 3. In caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell'assenza”.

La norma non prevede eccezioni, né fa salve diverse disposizioni dei contratti collettivi, per cui, poiché il “rinnovo” è un nuovo contratto, il patto di prova è, comunque, escluso anche ove sia decorso diverso tempo dal primo, che, inoltre, avrebbe potuto essere a tempo determinato (visto che non si precisa la tipologia contrattuale) con, quindi, un patto più breve e legato ad una prestazione, comunque, temporanea.

Non si considera, quindi, che in tali casi il patto di prova riveste ancora una notevole importanza per l’impresa, vieppiù se intenzionata ad assumere a tempo indeterminato. Non potendo prevedere il normale periodo di prova, l’escamotage potrebbe essere un ulteriore contratto a tempo determinato (se fattibile in base all’art. 19 D. Leg. 81/2015), se non la scelta di un altro lavoratore.

Escludendo che sia questo l’intento del Legislatore, ci chiediamo perché non siano stati valutati i contro, oltre che i pro (per i lavoratori) di tale disposizione, visto che se il lavoratore è capace vi è da presumere che superi il patto di prova, senza necessità di ulteriori garanzie.

Il maggior onere è però dato dal prolungamento del periodo di prova, che potrebbe comprendersi in caso di maternità e paternità obbligatori, ma molto meno per malattia ed infortunio (neppure precisato sul lavoro), considerato che non viene posto alcun limite, per cui potrebbe persino superare il periodo di comporto, che confidiamo la giurisprudenza ritenga, in ogni caso, un limite.

Invero questa norma comporta, non solo costi notevoli a carico delle società (visto che per il personale impiegatizio non c’è l’indennità a carico INPS, e per il personale operario sono quasi sempre previsti conguagli a carico del datore di lavoro, così come nel caso di indennità INAIL, che, comunque , interviene solo per gli infortuni sul lavoro), ma anche problemi organizzativi, non potendo fruire del lavoratore neo assunto, assente per tali eventi durante il periodo di prova, né valutare se e quando sostituirlo, visto l’uso di reiterati certificati di malattia di 10-15 giorni.

Sarebbe stato sufficiente prevede che il datore può sospendere il decorso della prova, in tali casi, o fare salve diverse previsioni di contratti collettivi (intesi ex art. 51 D. Leg. 81/2015), per consentire al lavoratore di completare l’esperimento, senza, però, un obbligo, che, con ogni probabilità, sarà utile a chi tende a sfruttare le norme e non ai lavoratori che si assentano per un breve periodo.

Nei corsi e ricorsi storici stiamo, quindi, tornando a norme rigide ed eccessivamente  garantiste, quando, in realtà, oggi, ancor di più che nel 2015, vi è la necessità di incentivare le assunzioni (motivo per cui la Consulta ha ritenuto legittime le previsioni del D. Leg. 23/2015), per il che è necessaria maggior flessibilità sugli aspetti salienti del rapporto di lavoro (assunzioni e licenziamenti), pur tramite intese con le OO.SS.LL, e, comunque, fermo il vaglio adeguatamente discrezionale del Giudice, che tante volte ha supplito alle lacune legislative o dato concretezza ai termini utilizzati dal Legislatore (V. quanto sopra per il “manifesta”).

Vi è, perciò, da auspicare che, oltre a riequilibrare tutele molto controverse (v. reddito di cittadinanza), il nostro Governo ponga mano anche al diritto sostanziale tornando ad introdurre la necessaria flessibilità, per cui sarebbe sufficiente   eliminare qualche “errata” novella e mettere altri e più precisi criteri o limiti, laddove è intervenuta la Consulta.

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