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Corsi e ricorsi nella disciplina delle collaborazioni. Una storia infinita.

Tanto la giurisprudenza, di legittimità e di merito, quanto la dottrina, da ormai molti anni si affannano nel tentativo di ricostruire a livello sistematico i confini di quella “zona grigia” del diritto del lavoro, rappresentata dalle collaborazioni. Uno sforzo interpretativo che ha fatto i conti, sin da quando il legislatore ha introdotto le prime norme in materia (prima in ambito processuale e previdenziale, poi sostanziale), con il ciclico mutare delle disposizioni di riferimento.

Inizialmente, quando ancora mancava una normativa specifica, l’ambito del lavoro parasubordinato veniva individuato a contrario, partendo dalla definizione di subordinazione ex art. 2094 cod. civ.. In assenza di eterodirezione, intesa come soggezione al potere conformativo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro, la prestazione lavorativa poteva essere ritenuta di natura autonoma. Se poi tale prestazione comportava uno stabile rapporto di collaborazione con il committente, ed un certo grado di coordinazione da parte di quest’ultimo, allora ci si trovava di fronte alla collaborazione coordinata e continuativa, la terza via, a metà strada tra lavoro dipendente e lavoro autonomo.

Tutta la giurisprudenza formatasi negli anni ’80 e ’90 richiamava il principio, ripetuto quasi come un mantra dalla Cassazione, secondo cui qualsiasi attività umana può essere svolta in regime di subordinazione o autonomia: la differenza non la fa il contenuto della prestazione, bensì la modalità con cui viene svolta. E se il criterio della soggezione alle direttive non è sufficiente a qualificare il rapporto, la giurisprudenza ha individuato numerosi criteri accessori, finalizzati a consentire una valutazione, talvolta equitativa, del caso concreto: la volontà delle parti, la rigidità di orario e retribuzione, l’assenza di rischio di impresa, la proprietà degli strumenti di lavoro, l’obbligo di esclusiva.

Così fino a che, nel tentativo di porre un freno a un uso improprio e disinvolto del lavoro parasubordinato, è sopraggiunto il lavoro a progetto. Nella disciplina di tale forma di rapporto di collaborazione, contenuta nella “riforma Biagi”, il legislatore ha posto l’accento sul fatto che l’obbligazione del prestatore d’opera non è di mezzi, bensì di risultato. Le intenzioni erano le migliori, eppure la normativa sul lavoro a progetto, nella sua applicazione pratica, da un lato ha esasperato i dubbi degli interpreti; dall’altro, proprio per queste incertezze interpretative e per gli altalenanti orientamenti della giurisprudenza, ha portato alla sostanziale estinzione di un istituto, quello del lavoro parasubordinato, a cui invece – nelle intenzioni del legislatore dell’epoca - avrebbe voluto dare nuovo slancio. Non era chiaro cosa fosse esattamente “il progetto o programma di lavoro o fase di esso” che avrebbe dovuto fungere da spartiacque tra le collaborazioni genuine e quelle truffaldine. Ancor meno chiare erano le conseguenze dell’assenza del progetto: nella giurisprudenza poi divenuta prevalente, l’assenza del progetto comportava una presunzione assoluta di subordinazione, con conversione ipso iure della collaborazione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Eppure, la disciplina del lavoro a progetto, così come integrata da successivi interventi normativi, da ultimo la “legge Fornero”, conteneva anche innovative forme di tutela per il collaboratore. Ad esempio, il compenso non inferiore ai minimi retributivi previsti dal CCNL (una anticipazione del salario minimo); limitazioni alla facoltà di recesso ante tempus; tutele in ipotesi di gravidanza, malattia e infortunio; equo premio in ipotesi di invenzioni industriali.

Sennonché, nell’ambito del complessivo intervento riformatore del 2015 battezzato “jobs act”, il lavoro a progetto è andato in pensione, per fare posto alla nuova disciplina delle collaborazioni, molto più sintetica delle precedenti norme della legge Biagi, contenuta all’art.2 del d.lgs. 81/2015. Anche questa volta il legislatore ha cercato di valorizzare un criterio interpretativo a cui affidare il compito di faro nella nebbia. Prima c’era il progetto. Nel jobs act è stato, invece, posto l’accento sul luogo e tempo della prestazione lavorativa: la collaborazione non può essere genuina se la prestazione si svolge stabilmente all’interno della sede del committente, e se quest’ultimo determina i tempi della prestazione. Per la verità, questa centralità del criterio del luogo della prestazione non sembra poi così  moderna, in un mondo in cui si possono ricevere stringenti direttive con i moderni strumenti tecnologici, anche restando seduti sul divano di casa. E in cui, all’interno delle aziende, oramai la forza lavoro è sempre più liquida: tra dipendenti veri e propri, personale in distacco, lavoratori somministrati, liberi professionisti. Insomma, non è detto che chiunque stia in ufficio sia un dipendente; e nemmeno è detto che uno non possa essere subordinato solo perché svolge la propria prestazione lavorativa al di fuori di tale ufficio.   

Fatto sta che anche quest’ultimo tentativo di stabilire uno spartiacque tra subordinazione e collaborazione ha avuto vita breve, forse perché ci si è accorti che rischiava di pregiudicare le tutele di una categoria di collaboratori divenuta emblematica, quella dei riders e dei platform workers.

Così siamo giunti all’ennesimo recente intervento normativo della L. 2 novembre 2019 n. 128 che ha modificato l’art. 2 del D.Lgs. 81/2015. Il primo comma ha subito due interventi: i) è stato sostituito l’avverbio “esclusivamente” con “prevalentemente” con riferimento alla natura personale della prestazione svolta dal collaboratore; ii) è stato rimosso l’inciso “anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro”, laddove la precedente formulazione della norma  sulle collaborazioni - come si è detto - individuava tale modalità di etero organizzazione della prestazione lavorativa quale aspetto decisivo nella qualificazione del rapporto.

E’ evidente che il legislatore, escludendo il riferimento espresso ai collaboratori che prestano la propria attività all’interno della sede del committente e/o in fasce orarie stabilite da quest’ultimo, ha voluto allargare la platea dei destinatari della tutela. Tale intento è ancor più palese laddove, sostituendo l’avverbio “esclusivamente” con “prevalentemente”, il legislatore ha consentito la riqualificazione come lavoro subordinato di prestazioni che si svolgono in team, o addirittura avvalendosi del “subappalto” di talune specifiche attività.

Fatto sta che il recente restiling dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 sembra aver riportato indietro le lancette dell'orologio. L'attuale disciplina delle collaborazioni, essendo stato espunto l'accento su uno dei tanti indici rivelatori di subordinazione a cui il  jobs act aveva voluto dare rilevanza, restituisce all'interprete la libertà di valutare la sussistenza della subordinazione, partendo dalla soggezione al potere direttivo del lavoratore, e potendo poi considerare ogni altro elemento rilevante nel caso concreto, tra quelli che la giurisprudenza negli ultimi decenni ha individuato quali elementi accessori nell'ambito della qualificazione del rapporto. Specularmente, mentre con la vecchia versione dell'art. 2 l'attenzione era puntata sulla sede e il luogo della prestazione, per cui i committenti che avevano collaboratori operanti dall'esterno dell'azienda si sentivano in qualche modo graziati, adesso questo aspetto non può costituire un alibi per giustificare collaborazioni non genuine.

È prevedibile che, valorizzando la libertà dell'interprete, senza più presunzioni legali, aumenteranno anche l’alea dei giudizi e le oscillazioni della giurisprudenza.

Per avere un assaggio di quello che potrebbe essere lo scenario dei prossimi anni, basta leggere le più recenti sentenze sul tema. Nel caso Foodora, la Corte d’Appello di Torino (sentenza 4 febbraio 2019 n. 26) ha ricondotto il rapporto dei fattorini alla disciplina del lavoro dipendente, escludendo la sussistenza di subordinazione ma accertando la collaborazione coordinata. Ha riconosciuto il diritto al trattamento retributivo previsto dal CCNL di settore, negando quello al ripristino del rapporto di lavoro (perché i contratti erano a termine e sono cessati alla naturale scadenza).  Qualche mese più tardi, invece, il Tribunale di Roma (sentenza 6 maggio 2019, n. 4243) ha dato ragione ad un call center, escludendo la natura subordinata del rapporto dei collaboratori in ragione dell’elasticità dell’orario di lavoro.

È altrettanto probabile che, in assenza di parametri normativi, sarà necessario attingere al diritto vivente costituito dalla giurisprudenza negli ultimi decenni.

A seconda della rigidità che la giurisprudenza vorrà adottare nell'applicare i propri consolidati criteri, potremo assistere a un risorgimento dell'istituto delle collaborazioni, con l'auspicio di non ritornare ai tempi in cui di esse si faceva abuso. Oppure potrebbe verificarsi l’opposto: le aziende, esasperate dai continui interventi normativi e dalla conseguente incertezza, saranno indotte ad abbandonare l'utilizzo dell'istituto, tanto più che il medesimo non è nemmeno conveniente sotto il profilo dell'incidenza dei costi fiscali e contributivi.

Considerato il trattamento fiscale benevolo di cui beneficiano le partite IVA, è plausibile che azienda e lavoratore, qualora decidessero di optare per un regime di lavoro autonomo, con conseguenti reciproci rischi e limiti, cercheranno perlomeno di massimizzare il vantaggio derivante dalla flat tax.  Con l'auspicio che prima o poi, finalmente, il legislatore intervenga anche sul cuneo fiscale del lavoro subordinato.

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