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Il punto su: risarcimento danni in relazione per presunta esposizione lavorativa ad amianto, necessita’ di rigorosa valutazione degli elementi di prova e dell’importanza dei fattori ambientali extral

Il punto su: risarcimento danni in relazione per presunta esposizione lavorativa ad amianto, necessita’ di rigorosa valutazione degli elementi di prova e dell’importanza dei fattori ambientali extralavorativi

A cura di Vittorio Provera e Marta Filadoro

Negli ultimi anni vi sono state in Italia numerose vicende giudiziarie (in sede civile e penale), relative a malattie professionali derivate da pretesa esposizione a polveri di amianto in luoghi di lavoro.

Si tratta di cause che iniziano, di norma, a distanza di molti anni dallo svolgimento della attività lavorativa in ambiente ritenuto nocivo, poiché le prime manifestazioni delle malattie asbesto correlate (tra queste, il mesotelioma pleurico) possono verificarsi anche a distanza di 20/40 anni dalla inalazione di polveri,  così determinandosi molteplici problematiche di tipo giuridico, anche correlate alla esatta ricostruzione dei fatti. Così può  accadere, ad esempio, che la società ex datrice di lavoro sia stata – nel frattempo -  cancellata dal registro delle imprese; oppure che il lavoratore abbia operato presso diversi datori di lavoro restando però esposto – in talune sedi lavorative – alla ipotetica inalazione di fibre di amianto, con conseguente ulteriore difficoltà a stabilire quali aziende e/o ambienti coinvolti abbiano eventualmente concorso alla causazione della  malattia (il tutto senza omettere di considerare che ulteriori e molteplici fattori puramente ambientali  possono essere le cause – anche al di fuori del rapporto di lavoro - all’origine dell’insorgere di una patologia).

Sotto il profilo meramente giuridico, in materia di responsabilità contrattuale, si rammenta che l’art. 2087 c.c. dispone, in linea generale, che l’imprenditore adotti "nell'esercizio della impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare la integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".

In tale contesto solo a partire dagli anni ottanta è stata accertata la specifica pericolosità dell’amianto, in caso di basse esposizioni. Ed infatti, dal primo dopoguerra sino alla fine degli anni ’80, plurime disposizioni - regolamentari o legislative - avevano addirittura imposto l’utilizzo dell’amianto, sia come componente di strumenti di protezione dei lavoratori, sia a fini di coibentazione.

A livello comunitario, il primo limite è stato fissato dalla Direttiva CEE del 19 settembre 1983 n. 83/477, che aveva stabilito i valori limite in 1,00 fibre per cm/3 di amianto. Il legislatore italiano ha, peraltro, dato attuazione alla suddetta Direttiva CEE solamente con Decreto Legislativo 15 agosto 1991 n. 277, abbassando ulteriormente  i valori dei limiti di esposizione e ponendo a carico dei datori di lavoro una serie di obblighi ulteriori (di informazione e prevenzione).

Con legge 27 marzo 1992 n. 257 è stato, infine, stabilito il divieto di estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione dell’amianto, di prodotti di amianto o di prodotti contenenti l’amianto entro il 1993. Da ultimo, si rileva che  solo con il DPR 336 del 1994,  il Mesotelioma - tumore  collegato alle polveri di amianto - è stato ricompreso nelle tabelle relative alle malattie professionali.

A fronte di quanto precede, sono agevolmente intuibili le difficoltà probatorie che inevitabilmente si pongono a carico sia delle parti, sia del Giudice, nell’indagare e cercare di ricostruire - spesso a distanza di decenni -  le cause di eventuali patologie e responsabilità (se esistenti). In proposito, si segnala un’interessante pronuncia del Tribunale di Ancona del 7 marzo 2017 (n. 110/2017) che ha statuito in ordine alla richiesta formulata, dagli eredi di un lavoratore, di accertare la pretesa responsabilità di uno degli ex datori di lavoro del familiare, relativamente al decesso per mesotelioma pleurico dello stesso e - conseguentemente - condannare l’azienda al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali,  asseritamente subiti. In detta vicenda i ricorrenti hanno dedotto una pretesa esposizione ad amianto del de cuius nel corso dell’attività lavorativa, svolta presso la società convenuta negli anni ’70.

Il Giudice di primo grado ha anzitutto evidenziato - quanto al riparto dell’onere probatorio - che in base a principi consolidati della giurisprudenza di legittimità,  al fine dell’accertamento della responsabilità di natura contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., incombe su coloro che agiscono in giudizio lamentando, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno ed anche la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra detti elementi. Grava, invece, sul datore di lavoro – una volta  dimostrate le suddette circostanze  - l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie (anche in base alle conoscenze estato della tecnica dell’epoca) per impedire il verificarsi del danno medesimo.

Alla luce delle suddette premesse, il Giudice ha ritenuto che la parte ricorrente non avesse fornito prova sufficiente dell’inadempimento della società all’obbligo sancito dall’art. 2087 c.c. e della conseguente insalubrità dell’ambiente di lavoro per sussistenza di esposizione all’amianto. Sotto l’aspetto della nocività ambientale, le testimonianze assunte ed i documenti allegati, non avevano condotto alla dimostrazione che nei locali in cui aveva operato il lavoratore vi fosse la presenza di amianto, ne tanto meno che polveri di amianto fossero depositate  nei materiali e/o apparecchiature giacenti negli ambienti.

In aggiunta a quanto sopra è stata data anche rilevanza ad altri elementi.

In primo luogo la circostanza che, in base ai protocolli e ricerche scientifiche, il mesoteliomi pleurico (tipico tumore da esposizione da amianto) può essere riconducibile ad origine professionale e tale origine è altamente probabile in caso di riscontro di una elevata quantità di corpi di asbesto per grammo di tessuto secco (1000 corpi per grammo). Orbene, nel caso di specie l’esame effettuato in sede di autopsia aveva dato esito negativo su tale aspetto (con conseguente improbabile – anche se non impossibile – genesi lavorativa della malattia).

E ancora, il Tribunale ha valutato e richiamato le risultanze della scheda di valutazione redatta dal Centro Operativo Regionale del Registro Nazionale Mesoteliomi prodotta in giudizio, secondo cui dovevano essere considerati come periodi certamente generatori di un’esposizione professionale ad amianto: (i) quello svolto dall’ex dipendente come apprendista elettromeccanico a bordo di navi militari (dato il noto utilizzo di materiali contenenti amianto nell’industria navale, in particolare, per la coibentazione degli ambienti e nelle sale macchine e motori); (ii) nonché quello relativo al periodo di servizio militare a Casale Monferrato (data la posizione della caserma rispetto sia allo stabilimento, sia al magazzino dell’Eternit); rilevando altresì che detta documentazione aveva, invece, ritenuto “improbabile” – alla luce dei dati forniti - un’esposizione nociva durante il periodo lavorativo presso la società convenuta.

Il complesso degli elementi sopra illustrati ha portato a statuire che, nel caso in esame, non è stata raggiunta la prova della nocività dell’ambiente di lavoro di cui era causa ed è stata negata la sussistenza del nesso di causalità, anche di tipo concorrente, tra la malattia che ha portato al decesso il de cuius e l’attività svolta da quest’ultimo presso la società convenuta, con conseguente rigetto delle domande attoree.

Si tratta, dunque, di una pronuncia significativa, posto che, da un lato, sono stati  applicati in modo approfondito e corretto i criteri giurisprudenziali di ripartizione dell’onere della prova, in una materia delicata e complessa come quella in esame; dall’altro, è stato accertato che la patologia di cui è causa ha trovato la propria origine in situazioni diverse da quella dedotta in giudizio, tenendo conto  anche della nota diffusione ed utilizzo di detto materiale negli ambienti frequentati dall’ex dipendente in epoca precedente a quella relativa all’attività presso l’azienda convenuta.

 

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