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Dal jobs act ad oggi: se il rimedio è peggio del male

Dal jobs act ad oggi: se il rimedio è peggio del male

A cura di Salvatore Trifirò

Sono passati ormai due anni dall’entrata in vigore dei decreti attuativi del jobs act, ed è già tempo di bilanci.

Partiamo dai licenziamenti. Le controversie riguardano ancora prevalentemente quelli tutelati dal vecchio art. 18 St. Lav., come modificato dalla legge Fornero. D’altro canto, tenuto conto dell’ingente numero di assunzioni effettuate nel 2015, sulla scia degli sgravi contributivi, tra la fine 2016 e gli inizi di quest’anno vi è stato un incremento delle cause in cui i lavoratori invocano l’applicazione delle “tutele crescenti”.

Com’era immaginabile, in tale ambito i lavoratori cercano di dimostrare la sussistenza di un motivo illecito per chiedere la reintegrazione. A questo fine, sfruttano l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza antecedente al jobs act, secondo cui, al di là dei motivi di discriminazione tipizzati ex lege, le ragioni di ritorsione e di rappresaglia possono essere desunte da qualsiasi aspetto del caso concreto. E così prospettano un sottaciuto motivo illecito quando il ricorrente è affetto da una malattia, o comunque ha delle limitazioni funzionali legate alla sua situazione di salute; aveva lamentato una dequalificazione o chiesto il pagamento di differenze retributive; aveva avuto attriti con i colleghi o con i superiori; aveva partecipato a iniziative sindacali o rivendicazioni di carattere collettivo. Qualunque ragione è buona per sostenere che dietro un licenziamento disciplinare o una soppressione della posizione si celerebbe la volontà del datore di lavoro di liberarsi di un dipendente, per qualche ragione, divenuto scomodo.

Per ora, sembra reggere il principio secondo cui il motivo illecito, oltre ad essere determinante, deve essere dimostrato dal lavoratore che lo deduce, per lo meno attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti (Tribunale di Roma, sentenza 4 ottobre 2016). Tuttavia, qualora le aziende cominciassero a sfruttare al massimo le potenzialità del nuovo regime di tutele crescenti, confidando nel fatto che la reintegrazione è esclusa sia in ipotesi di un preteso difetto di proporzionalità del licenziamento disciplinare, sia nel caso di insussistente motivo oggettivo, si rischierebbe un effetto boomerang.

Per bilanciare la debolezza delle tutele insita nella nuova disciplina, la giurisprudenza potrebbe cominciare ad interpretare sempre più estensivamente il concetto di motivo illecito, accontentandosi di elementi probatori indiziari, e ritenendo che il suddetto motivo non debba essere necessariamente esclusivo, ma essere anche solo prevalente.

Un segnale di questo rischio si può ricavare da due recenti ordinanze del Tribunale di Roma (16 gennaio 2017) e di Vicenza (ordinanza 24 maggio 2016) le quali – rese in relazione a licenziamenti tutelati ex art. 18 St. Lav. – affermano che il licenziamento, adottato nel periodo intercorrente dalla richiesta di pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione, si presume a causa delle nozze, ed è quindi nullo, anche se intimato allo “sposo”.  Tali ordinanze ritengono, infatti, applicabile estensivamente, ovvero per analogia, la tutela riconosciuta dalla legge alle lavoratrici anche ai lavoratori uomini.

Ancor più preoccupante è il principio affermato da una sentenza del Tribunale di Roma (sentenza 4 aprile 2016) - relativa a un caso ove era applicabile il nuovo regime delle “tutele crescenti” - secondo cui il motivo discriminatorio potrebbe sussistere anche laddove sia provata una causa legittima ex art. 1 l. n. 604/1966, ma il lavoratore abbia dedotto la sussistenza di un ipotetico “fattore di rischio”: una circostanza oggettiva da cui sarebbe desumibile presuntivamente che il lavoratore licenziato, a causa di una sua condizione soggettiva, sarebbe stato trattato in maniera differente rispetto a quanto sia, sia stato o sarebbe stato trattato un altro soggetto in analoga situazione, e ciò a prescindere dalla motivazione addotta e dall'intenzione di chi ha adottato il provvedimento discriminatorio. È chiaro che, se si affermasse generalmente questo orientamento, un lavoratore licenziato per ragioni disciplinari potrebbe chiedere la reintegrazione a fronte del fatto che, per simili comportamenti, un collega ha ricevuto una sanzione conservativa, il che implicherebbe una discriminazione e la conseguente nullità del licenziamento. Una tesi del genere non è condivisibile perché trascura di valutare il licenziamento sotto il profilo della lesione del rapporto fiduciario. Tuttavia essa è insidiosa, partendo dal presupposto secondo cui qualsiasi disparità di trattamento comporta di per sé una discriminazione.

Insomma, è bene che le aziende siano caute nell’applicazione del nuovo regime dei licenziamenti, evitando atteggiamenti troppo “disinvolti”, poiché nelle maglie della disciplina delle tutele crescenti si nasconde la possibilità di una interpretazione pro lavoratore che finirebbe per annullarne lo scopo.

Detto questo, una cosa è facilitare i licenziamenti, altra è creare occupazione. La disoccupazione si combatte facendo ripartire l’economia. Il Jobs Act, invece, è basato sulla convinzione – a mio avviso fallace – secondo cui si creerebbero posti di lavoro riconducendo il più possibile ogni tipo di rapporto alla subordinazione, e attenuando al contempo le tutele di cui godono i dipendenti: sia quelle in costanza di rapporto, sia quelle previste in ipotesi di cessazione del rapporto medesimo.

A ben vedere, liberalizzando i licenziamenti è probabile che si assista ad un incremento della disoccupazione, piuttosto che dell’occupazione, specialmente in futuro, quando cesseranno gli incentivi alle assunzioni.

Qui mi riallaccio al secondo aspetto del jobs act che merita un bilancio. L’attenzione del legislatore, e anche dell’opinione pubblica, è focalizzata soprattutto sulle misure di sostegno a favore di chi perde il posto di lavoro. Dal 2017 la Naspi ha rimpiazzato l’indennità di mobilità, con conseguente applicazione di un regime generalizzato in cui anche i lavoratori delle aziende di piccole dimensioni beneficiano di un “paracadute” di 24 mesi, con copertura contributiva figurativa e costi a carico della collettività (mentre i costi dell’indennità di mobilità ricadevano sulle imprese che ne beneficiavano). L’acceso dibattito di questo periodo in materia di reddito di cittadinanza e di estensione degli ammortizzatori sociali ai collaboratori e ai lavoratori autonomi conferma la centralità del tema.

Ebbene, non vi è dubbio che, in un contesto di crisi economica, il legislatore dovesse razionalizzare e riequilibrare il sistema degli ammortizzatori sociali, andando a tutelare anche le categorie in precedenza escluse. Tuttavia, questa esigenza non dovrebbe distogliere l’attenzione dal primario obiettivo che è quello di favorire la ripresa economica e rilanciare i consumi. Per farlo, l’unico modo è quello di ridurre la pressione fiscale sulle imprese e sul costo del lavoro, attraendo gli investitori esteri e favorendo l’imprenditorialità locale. Il presupposto per attuare politiche fiscali di questo tipo è il taglio della spesa pubblica improduttiva. E, accanto a questo, è necessario tenere sotto controllo i costi del sistema previdenziale che includono anche quelli per gli ammortizzatori sociali.

In altre parole, l’attenzione forse eccessiva che viene rivolta al tema degli ammortizzatori e alla loro estensione a tutte le categorie professionali, compresi i lavoratori autonomi, sembra simile all’atteggiamento di un medico si preoccupa molto (forse troppo) dei sintomi, e poco di curare le cause della malattia.

Il lavoro autonomo può e deve essere incentivato non certo promettendo ai liberi professionisti di beneficiare di un modesto ammortizzatore, in cambio dell’ulteriore incremento della tassazione a loro carico (già di per sé molto alta). Piuttosto, andrebbe ripensato il principio – alla base dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 - secondo cui qualunque collaborazione svolta all’interno dell’azienda comporterebbe l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato, a prescindere dalle modalità attuative e dagli accordi raggiunti tra le parti. La demonizzazione delle collaborazioni, sottesa al nuovo regime del jobs act, dovrebbe invece cedere il passo a misure che individuino nel lavoro autonomo e nella parasubordinazione delle valide alternative per favorire l’esigenza, spesso comune ad imprese e lavoratori, di maggior elasticità nella gestione dei rapporti.

Inoltre, favorire il lavoro autonomo, specialmente per coloro che hanno perso il posto stabile, sarebbe un modo per cercare di arginare forme di sfruttamento quali il lavoro in nero o l’abuso dei voucher, a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi.

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