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Divieto di licenziamento "causa matrimonio" esteso anche agli uomini - Il paradosso della "parità di trattamento"

Divieto di licenziamento "causa matrimonio" esteso anche agli uomini - Il paradosso della "parità di trattamento"

A cura degli avv.ti Damiana Lesce e Valeria De Lucia

I primi tre commi dell'art. 35 del D.lgs. n. 198 del 2006 , dispongono:

-"Le clausole di qualsiasi genere, contenute nei contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedano comunque la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio sono nulle e si hanno per non apposte";

-del pari, sono nulli i licenziamenti attuati a causa di matrimonio;

-"si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio".

Nel contesto normativo di cui sopra, due recenti ordinanze del Tribunale di Roma (16 gennaio 2017) e del Tribunale di Vicenza (ordinanza 24 maggio 2016) affermano che il licenziamento, adottato nel periodo intercorrente dalla richiesta di pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione, si presume a causa delle nozze, ed è quindi nullo, anche se intimato allo "sposo" (lavoratore uomo). In un contesto normativo nel quale, il Legislatore si riferisce espressamente solo a "lavoratrici" (vd. sopra art. 35) la giurisprudenza, a sostegno della predetta interpretazione estensiva (anche a favore del lavoratore uomo), argomenta di "pari opportunità al maschile"; del fatto che l'articolo 35 del decreto legislativo 198/06 sia finalizzato a sanzionare il provvedimento espulsivo adottato in violazione del diritto a formarsi una famiglia e del fatto che una diversa interpretazione sarebbe in contrasto con la direttiva 76/207/Ce e finirebbe per discriminare gli uomini.

In realtà, forse né tema né soluzione sono così semplici. Partiamo da un assunto, certamente non contestabile anche perché affermato dalla Corte Costituzionale: una differenziazione nelle tutele basata sul sesso non può di per sé essere tacciata di discriminatorietà. Per parlare di discriminazione occorre qualcosa di più. Facciamo ora un po' di storia: il divieto di licenziamento della donna lavoratrice "causa matrimonio" nasce dalla volontà del Legislatore di evitare che il datore di lavoro, "temendo", dopo il matrimonio, una imminente gravidanza (della lavoratrice di sesso femminile), con conseguenti tutele e garanzie economiche e di mantenimento del posto di lavoro, receda "in anticipo" dal contratto di lavoro in modo da non incorrere nella successiva preclusione di licenziare la lavoratrice nel corso della gravidanza e nell'arco del primo anno di vita del bambino. Storicamente, quindi, il divieto di licenziamento "causa matrimonio" discende dalla osservazione da parte del Legislatore di un dato spiacevole ma purtroppo ancora attuale: le maggiori "difficoltà" delle lavoratrici donne nell'accesso al mercato del lavoro in ragione del fatto che la gravidanza, a tutt'oggi, è considerata "poco gradita" da parte di taluni datori di lavoro.

Guardiamo ora alla disciplina comunitaria in materia di parità di trattamento ma anche di pari opportunità. Il principio giuridico è quello per cui gli ordinamenti devono rimuovere qualsivoglia ostacolo alla partecipazione economica, politica e sociale di un qualsiasi individuo per ragioni connesse al genere, religione e convinzioni personali, razza e origine etnica, disabilità, età, orientamento sessuale o politico. Quanto sopra, tuttavia, non significa che tutti debbano essere trattati indistintamente allo stesso modo. Non a caso, in una direttiva più recente di quella citata nelle sentenze in esame, ed in particolare nella Direttiva 5 luglio 2006, n. 2006/54/CE, si legge al 21º considerando:

"Il divieto di discriminazione non dovrebbe pregiudicare il mantenimento o l'adozione da parte degli Stati membri di misure volte a prevenire o compensare gli svantaggi incontrati da un gruppo di persone di uno dei due sessi".

Ed ancora, al 24º considerando: "La Corte di giustizia ha costantemente riconosciuto la legittimità, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, della protezione della condizione biologica della donna durante la gravidanza e la maternità nonché dell'introduzione di misure di protezione della maternità come strumento per garantire una sostanziale parità".

L'applicazione del principio delle pari opportunità porta, quindi, a riconoscere maggiori tutele a determinate categorie di individui (lavoratori). L'obiettivo è dare "di più" ad alcuni proprio per "compensare gli svantaggi" di determinate categorie che, per qualsivoglia motivo, di fatto hanno meno chance di entrare nel mercato del lavoro o rimanervi. Si pensi, a titolo di esempio, anche agli sgravi per l'assunzione riconosciuti, per il 2017, sostanzialmente solo a favore dei giovani (e, quindi, non di tutti i lavoratori dipendenti). E veniamo ora al rapporto uomo/donna lavoratore.

Alcune differenze di trattamento sussistono e sono state confermate anche di recente. Ecco un esempio: ai sensi dell'art. 55 del D.lgs. D.lgs. 151 del 2001 , in caso di dimissioni volontarie presentate durante il primo anno di vita del bambino, la lavoratrice può dimettersi in tronco con diritto all'indennità sostitutiva del preavviso.

Tale diritto non si estende automaticamente al "padre" lavoratore, salvo il caso che abbia fruito del congedo di paternità (anche per l'ipotesi di adozione). Il nostro ordinamento riconosce, dunque, il fatto che non sia irrazionale trattare diversamente il lavoratore di sesso maschile e la lavoratrice di sesso femminile. Quindi, come innanzi detto, una differenziazione nelle tutele basata sul sesso non può di per sé essere tacciata di discriminatorietà. Tornando al caso in esame, vale a dire quello del licenziamento "causa matrimonio", se il presupposto che ha mosso il Legislatore è quello di tutelare la donna a fronte di un licenziamento di fatto motivato dalla sua potenziale e/o probabile successiva gravidanza, l'estensione della medesima tutela al lavoratore uomo non sembra trovare giustificazione. E arriviamo al paradosso: forse interpretando la legge nel modo in esame e, quindi, accordando al lavoratore uomo la medesima tutela (causa matrimonio) accordata alla lavoratrice donna, si finisce in concreto per togliere ad una categoria oggettivamente più "svantaggiata" quel qualcosa in più che avrebbe potuto aiutare nel perseguire il principio delle pari opportunità, ovvero "a prevenire o compensare gli svantaggi incontrati da un gruppo di persone di uno dei due sessi" come previsto dalla Direttiva 5 luglio 2006, n. 2006/54/CE.

Un trattamento differenziato tra lavoratrice donna e lavoratore uomo non appare, quindi, discriminatorio se il lavoratore uomo non viene trattato differentemente dalla lavoratrice donna in ragione della sua appartenenza al sesso maschile ma per motivi ragionevoli e razionali.

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