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T&P Magazine

Uno sguardo al passato pensando al futuro

A cura di Salvatore Trifirò

Il 2016 è stato un anno movimentato ed in pari tempo di assestamento: sia sotto il profilo normativo; sia sotto il profilo giurisprudenziale e amministrativo.

Dopo che, nel 2015, è intervenuto il jobs act, rivoluzionando equilibri ormai consolidati dall’epoca dello Statuto dei Lavoratori, nell’anno appena trascorso abbiamo avuto i primi orientamenti della giurisprudenza e circolari amministrative interpretative, che hanno riguardato i rapporti di lavoro a “tutele crescenti” (o “decrescenti” a seconda dei punti di vista); la privacy; i controlli a distanza; la nuova disciplina delle mansioni; i rapporti di collaborazione; gli ammortizzatori sociali. Contestualmente con il 2016 è stata archiviata anche l’indennità di mobilità. Dal 2017, infatti, a tutti i lavoratori che perdono il posto di lavoro, anche nell’ambito dei licenziamenti collettivi, spetterà soltanto la NASPI, quantificata sulla base di criteri omogenei che valgono per qualsiasi ipotesi di disoccupazione involontaria.

Il 2016, peraltro, si chiude con una innovativa sentenza della Corte di Cassazione (7 dicembre 2016 n. 25201) che amplia il campo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, cui si potrà ricorrere non solo nei casi “straordinari” come le situazioni economiche sfavorevoli, ma anche in casi “ordinari”, in cui l’Azienda decide di sopprimere una funzione per aumentare la “redditività”.

La strategia politico-legislativa della rivoluzione concretatasi nel jobs act sembra sostanziarsi in un compromesso tra la volontà di ricondurre il più possibile ogni tipo di rapporto di lavoro alla subordinazione e quella, contrapposta, di attenuare le tutele dei dipendenti: sia di quelle di cui godevano in costanza del rapporto, sia di quelle previste in ipotesi di cessazione del rapporto medesimo. Ciò al fine, si è detto, di far crescere l’occupazione. Come se la disoccupazione dipendesse dal precedente impianto giuslavoristico e non dalla mancanza di una effettiva ripresa economica.

In questo contesto, il lavoro autonomo è stato visto dal Legislatore - nel solco di una politica legislativa non sgradita alle Corporazioni Sindacali - con grande sfavore: quasi fosse la causa di tutti i mali dei lavoratori e delle imprese. Ciò nonostante l’art. 1 della nostra Carta Costituzionale reciti “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”; facendo riferimento quindi a qualsiasi tipologia di lavoro. Non solo quello subordinato, ma anche quello imprenditoriale, professionale e “latu sensu” autonomo di pari dignità costituzionale.

Sennonché, dalla legge Biagi fino al Jobs Act, i rapporti di collaborazione autonoma sono stati presunti spesso truffaldini e riqualificati come subordinati sulla base di “indici rilevatori”, a prescindere dalle modalità con cui si svolgono in concreto.

Il rapporto di lavoro subordinato, peraltro, è stato incentivato attraverso ingenti sgravi contributivi, che non hanno portato, tuttavia, concreti vantaggi economici per i lavoratori, mentre sono state indebolite le loro tutele in caso di licenziamento. Piuttosto che promuovere la parasubordinazione, si è preferito delineare un ventaglio di rapporti speciali, che vanno dal “sempreverde” contratto a termine, alle diverse forme di apprendistato, per finire ai voucher, che hanno svilito la dignità del lavoro alimentando a dismisura il precariato.

Dai tanto vituperati contratti di lavoro autonomo “atipici” si è passati… alla “tipicizzazione del precariato!”

Il risultato di questo sistema è contraddittorio poiché, costringendo nelle maglie della subordinazione anche rapporti di lavoro che le parti stesse vorrebbero più dinamici e svincolati da forme rigide, la struttura organizzativa delle imprese resta, pur sempre, ingessata e aggravata da assurde disposizioni, come, ad esempio, quelle della "convalida" delle dimissioni.

Una volta ricondotto al lavoro dipendente qualunque tipo di rapporto all’interno dell’impresa, si è “precarizzato”, riducendo al minimo i casi di reintegrazione in ipotesi di licenziamento, limitando l’entità dell’indennizzo economico e liberalizzando il contratto a termine.

Sarebbe stato, invece, utile anche un sistema alla cui base vi fosse una libera scelta del lavoratore, tenuto presente che il lavoro subordinato comporta rigidità operative e riduce l’autonomia del singolo, di norma è meno retribuito, ma in compenso dovrebbe garantire la stabilità del posto.

Il lavoro autonomo, invece, consente al lavoratore libertà nello svolgimento della propria attività e nell’organizzazione del proprio tempo. Anziché essere demonizzato, avrebbe potuto rappresentare un utile strumento per coinvolgere i singoli nel rischio di impresa, motivarli a una maggiore produttività e permettere agli stessi di ambire a guadagni più elevati di quelli di un dipendente (tartassato anche con balzelli sindacali): guadagni che potrebbero anche essere reinvestiti in start up, creandosi un circolo virtuoso che possa far da traino alla tanto agognata ripresa economica.

Ripresa economica, soggiungiamo, che non potrà mai esserci se le Imprese non potranno usufruire di una Giustizia come quella attuale (un procedimento civile può durare fino a 10/15 anni); se non ci sarà una riforma fiscale che comporti una adeguata e generalizzata riduzione delle imposte (la cui esosità è stimolo all’evasione) e se non si ridurrà il costo del lavoro con reciproco vantaggio per datori e lavoratori. Ma non riducendo l’importo lordo della busta paga. Al contrario, aumentando l’importo netto attraverso idonei sgravi contributivi e fiscali. Potrà, così, esserci più circolante con aumento dei consumi interni, veri elementi propulsori della ripresa.

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