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Il licenziamento del lavoratore in prova: il positivo superamento dell’esperimento e l’esistenza di un motivo estraneo a fondamento del recesso

Il licenziamento del lavoratore in prova: il positivo superamento dell’esperimento e l’esistenza di un motivo estraneo a fondamento del recesso

A cura di Antonio Cazzella

La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 1180 del 18 gennaio 2017 offre lo spunto per un approfondimento sulla tematica del licenziamento del lavoratore in prova e, in particolare, sulla rilevanza del positivo superamento dell’esperimento al fine di valutare la legittimità del recesso.

Nel caso di specie, il dipendente di un’azienda farmaceutica aveva impugnato il licenziamento intimato durante il periodo di prova, affermando l’illegittimità del medesimo in considerazione del positivo superamento della prova e dell’esistenza di un motivo estraneo a fondamento del recesso (ovvero, l’esubero di personale a seguito dell’unificazione di due linee di prodotti).

La Corte di merito, pur rilevando l’ampia discrezionalità del datore di lavoro in ordine alla valutazione delle capacità professionali del dipendente assunto in prova, aveva accertato il positivo superamento della medesima e la mancanza di elementi sufficienti a dimostrare l’esistenza di un motivo estraneo alla prova, confermando la sentenza di primo grado, che aveva rigettato la domanda di reintegrazione nel posto di lavoro e condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno nella misura di dieci mensilità della retribuzione globale di fatto.

La Corte di Cassazione ha riformato la sentenza sulla base delle seguenti considerazioni.

In primo luogo, è stato evidenziato che, in caso di apposizione al contratto di lavoro di un patto di prova ai sensi dell’art. 2096 cod. civ., “l’interesse prevalente è la sperimentazione e la valutazione, da parte del datore di lavoro, delle caratteristiche e delle qualità del lavoratore, nonché del proficuo inserimento di quest’ultimo nella struttura aziendale”.

La Suprema Corte ha, quindi, precisato i limiti del potere discrezionale del datore di lavoro ai fini del recesso nel periodo di prova.

A tal riguardo, la Corte di Cassazione ha preliminarmente ribadito il principio secondo cui il licenziamento intimato nel corso o al termine della prova, attuato per ragioni inerenti la negativa valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore, non deve essere motivato.

Tanto premesso, la Suprema Corte ha ricordato che la libertà di recesso nel caso di lavoratore in prova non comporta la totale discrezionalità del datore di lavoro, in quanto, come stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 189/1980, la nullità del licenziamento può essere pronunciata laddove il lavoratore dimostri il positivo superamento dell’esperimento nonché l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito.

La Corte di Cassazione ha, quindi, evidenziato che, entro questi limiti, “la valutazione datoriale in ordine all’esito della prova è ampiamente discrezionale, sicché la prova da parte del datore di lavoro dell’esito positivo dell’esperimento non è di per sé sufficiente ad invalidare il recesso, assumendo rilievo tale circostanza se ed in quanto manifesti che esso è stato determinato da motivi diversi”.

Infatti, la Suprema Corte aveva già affermato che “l’avvenuto positivo superamento, da parte del lavoratore, dell’esperimento non è, di per sé solo, sindacabile in sede giudiziale, né può, di per sé, offrire la dimostrazione, pur presuntiva o per implicito, di un motivo illecito (ex artt. 1345 e 1418 c.c.) del recesso del datore di lavoro in pendenza del periodo di prova”, precisando che “un siffatto illecito motivo, quale ragione di nullità di quel recesso, può ritenersi provato in giudizio quando, oltre all’avvenuto positivo superamento dell’esperimento, siano dimostrati precisi e specifici fatti concreti i quali comprovino che il recesso non era in alcun modo ricollegabile all’esperimento stesso né al suo esito, ma era dovuto a ragioni del tutto estranee alla sua realizzazione ed alla causa del patto di prova e che integravano dunque così l’unico e determinante motivo (appunto illecito) della decisione del datore di recedere dal rapporto di lavoro” (Cass. 17 novembre 2010, n. 23224).

Peraltro, alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, non è del tutto pacifico che l’esistenza di un motivo estraneo alla prova possa essere automaticamente assimilato ad un motivo illecito (e, quindi, determinare l’illegittimità del recesso), essendo necessaria una verifica in concreto, posto che, ad esempio, il motivo estraneo potrebbe essere collegato a ragioni organizzative.

Infatti, in passato, la Suprema Corte – pur rilevando un’evoluzione giurisprudenziale tesa a parificare il motivo estraneo alla prova al motivo illecito - ha evidenziato che “il motivo estraneo all’esperimento non è però in sé motivo illecito ex art. 1345 c.c., né è a quest’ultimo equiparabile quanto all’inidoneità ad inficiare il recesso come affetto da vizio di nullità. Se così fosse, si avrebbe un’anomala ed ingiustificata stabilità e resistenza del rapporto in prova di fronte a quelle cause che sono riconducibili al giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Si determinerebbe infatti una differenziazione di disciplina, di dubbia legittimità costituzionale, tra i lavoratori in prova e lavoratori ordinari in danno di questi ultimi perché solo essi, e non anche i primi, sarebbero assoggettabili a licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo” (Cass. 17 gennaio 1998, n. 402).

In questa ipotesi, infatti, vi è una sostanziale parificazione della posizione del lavoratore in prova a quella del lavoratore ordinario, con la conseguenza che il giudice dovrebbe effettuare una verifica sulla giustificatezza del motivo estraneo all’esperimento, non dissimile da quello sotteso all’art. 3, della legge n. 604/1966 (Cass. n. 402/1998, cit.).

In particolare, la giurisprudenza ha affermato che, nei motivi “estranei” alla prova, non rientra il costo del lavoratore (nel caso di specie, un dirigente) e, quindi, la circostanza che il datore di lavoro non sarebbe in grado di sopportare tale costo, in quanto l’esperimento è diretto a valutare la convenienza, anche economica, del rapporto di lavoro instaurato (cfr. Corte Appello Milano, 27 maggio 2003, in Lav. Giur., 2003, 1171).

La giurisprudenza di legittimità più recente, ivi inclusa la pronuncia in esame, sembra tuttavia confermare un’interpretazione più rigorosa dei limiti al potere di recesso del datore di lavoro, assumendo che il motivo estraneo alla prova sia assimilabile al motivo illecito: tuttavia, se l’assunto di partenza è costituito dall’ampia discrezionalità del datore di lavoro in materia di recesso nel periodo di prova, come pure rilevato dalla Corte Costituzionale, appare giuridicamente coerente sostenere che tale potere possa essere censurato solo in presenza di un motivo illecito ex art. 1345 (ad esempio, motivi collegati all’età, al sesso, alla religione, etc.) e dalla dimostrazione, a carico del lavoratore, che tale motivo sia stato effettivamente l’unica ragione determinante del recesso.

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