A cura di Mario Cammarata e Noemi Spoleti
Quando il legislatore non riesce a stare al passo con l’evoluzione culturale della società civile, sono spesso le Corti a recepirne i mutamenti.
Anche con riferimento alla tutela dei diritti legati alla genitorialità delle coppie omoaffettive, la giurisprudenza è riuscita a colmare il vuoto normativo, fornendo una risposta – che auspichiamo possa arrivare presto anche dal legislatore – alle urgenti istanze provenienti dalla società civile.
Nella specie, la Corte Costituzionale ha enucleato la categoria del c.d. genitore "d'intenzione" per giungere a riconoscere e tutelare la posizione del genitore, partner di una coppia omosessuale, che abbia condiviso il progetto genitoriale con l’altro partner, pur senza fornire il proprio apporto genetico alla procreazione (che può avvenire tramite PMA, oppure maternità surrogata) (cfr. Corte costituzionale sentenze n. 221/2019, n. 230/2020, n. 32/2021 e n. 33/2021); tutto ciò, in ragione della necessità ultima di tutelare e perseguire il superiore interesse del bambino (best interest of the child o intérêt supérieur, secondo le formule utilizzate nelle rispettive versioni ufficiali in lingua inglese e francese della Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo). Quest’ultima categoria giurisprudenziale è stata utilizzata anche in ambito giuslavoristico - materia tradizionalmente molto vicina al diritto di famiglia, proprio per la caratteristica implicazione della persona nel contratto di lavoro - al fine di garantire anche ai genitori c.d. “intenzionali” un accesso paritario ai diritti, già garantiti ai soli genitori biologici, dal d.lgs. n. 151 del 2001.
Infatti, l’intero impianto del Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (d.lgs. n. 151 del 2001) è costruito sul presupposto di una genitorialità binaria e biologica, mentre non sono in alcun modo prese in considerazione le istanze delle famiglie omoaffettive, nelle quali, di necessità, almeno uno dei due genitori non ha un legame biologico con il bambino.
In questo contesto, il Tribunale di Milano, con ordinanza del 12 novembre 2020, si è pronunciato sul diritto della lavoratrice madre c.d. “intenzionale” o “seconda madre”, partner di una coppia formata da due donne unite civilmente, ad ottenere il congedo parentale ex art. 32 d.lgs. n. 151 del 2001, nonché il congedo per malattia del figlio ex art. 47 d.lgs. n. 151 del 2001.
Nella specie, nel caso analizzato dalla Corte milanese, la ricorrente deduceva di essere unita civilmente con la madre biologica del minore, concepito facendo ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) presso una clinica spagnola, e di aver riconosciuto il bambino ex art. 254 c.c. innanzi all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di Milano.
Rilevava, inoltre, che di fronte alla sua richiesta di fruire del congedo parentale e per malattia del figlio, la società datrice aveva opposto diniego, adducendo l’incertezza normativa circa la genitorialità delle coppie omogenitoriali e la mancata equiparazione, a tali fini, del matrimonio e dell’unione civile.
Pertanto, la lavoratrice, a fronte del diniego opposto dal datore di lavoro, presentava ricorso ex art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011 per ottenere la dichiarazione della natura discriminatoria della condotta datoriale, con conseguente riconoscimento del suo diritto alla fruizione dei suddetti congedi e condanna dell’azienda alla cessazione della condotta discriminatoria, nonché al risarcimento del danno. Il Tribunale, con riferimento al diritto a fruire del congedo parentale, ha, in primo luogo, qualificato il comportamento datoriale come una discriminazione “diretta” a causa dell’orientamento sessuale della lavoratrice, la quale se eterosessuale “avrebbe ricevuto un trattamento diverso e non si sarebbe vista negata il congedo parentale, per il cui riconoscimento sussiste in realtà il presupposto – dato dalla comprovata esistenza del rapporto di genitorialità con il minore – così come attestato dalla documentazione anagrafica”;
in secondo luogo, ha ritenuto che si dovesse superare il dato letterale della norma di cui all’art. 32 T.U. co. 1 lett. b), che fa riferimento al padre lavoratore (“al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, elevabile a sette nel caso di cui al comma 2”), poiché infatti, proprio il congedo parentale di cui alla lettera b) doveva essere riconosciuto alla ricorrente, in quanto quello di cui all’art. 32 co. 1 lett. a) non poteva che essere riconosciuto alla madre biologica, dato il suo rapporto con il congedo di maternità.
Nella prospettazione del Tribunale, tale lettura della norma era l’unica che possa rivelarsi utile ai fini del riconoscimento in concreto del diritto della ricorrente, non essendo previsti dalla legge, allo stato, altri casi di congedo parentale, con specifico riguardo alla situazione delle famiglie con genitori dello stesso sesso ed essendo detta interpretazione della norma l’unica in grado di assicurare al minore, figlio di una coppia omogenitoriale, la stessa dimensione affettiva e di cura garantita dall’ordinamento ai figli di coppie eterosessuali.
In ragione di ciò, il giudice ha condannato il datore di lavoro alla cessazione del comportamento discriminatorio e ha ordinato la concessione del diritto al congedo parentale alla lavoratrice.
Con riguardo, invece, al diritto a fruire del congedo per malattia del figlio, il Tribunale ha ritenuto che, nel caso di specie, in mancanza di allegazioni che facessero concreto riferimento ad uno stato di malattia del figlio, la domanda della ricorrente dovesse essere rigettata per carenza di interesse attuale ex art. 100 c.p.c.
È stata inoltre rigettata la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, in ragione della genericità delle allegazioni della lavoratrice sia con riferimento alle conseguenze pregiudizievoli della condotta datoriale, che con riferimento alla quantificazione del danno.
In riforma dell’ordinanza del Tribunale di Milano, la Corte d’Appello di Milano, con la decisione n. 453 del 2021, ha ampliato la tutela già riconosciuta in primo grado alla madre c.d. “intenzionale” riformando la sentenza di primo grado nella parte in cui ha escluso la natura discriminatoria del diniego dei congedi per malattia del figlio.
La Corte, infatti, ha ritenuto che la decisione assunta dal datore di lavoro fosse discriminatoria proprio in quanto motivata non dalla carenza di attualità della malattia del figlio, bensì dalle “valutazioni condotte sugli istituti delle “unioni civili” e della “genitorialità” derivata da PMA” ed ha inoltre rilevato la potenzialità discriminatoria delle dichiarazioni di intento.
Sempre in sede di appello, è stato poi riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale in ragione della lesione della sfera soggettiva della lavoratrice-madre intenzionale. La condotta discriminatoria è stata infatti ritenuta plurioffensiva, in quanto idonea ad incidere negativamente sulle concrete esigenze di organizzazione familiare della lavoratrice, sul rapporto con il figlio, sull’esercizio della funzione genitoriale, ma anche sulla dignità personale.
Ai dirimenti orientamenti giurisprudenziali appena illustrati, che, allo stato sembrano essere isolati, si accompagna una sempre più spiccata volontà delle aziende di estendere l’accesso agli strumenti di welfare a tutela della genitorialità anche alle famiglie composte da genitori dello stesso sesso, superando il vuoto normativo sul punto.
Da un punto di vista pratico, molte aziende si servono degli strumenti messi a disposizione dalla contrattazione di secondo livello, riconoscendo a proprio carico ai loro dipendenti - genitori non biologici partner di una coppia unita civilmente - l’accesso ai congedi parentali, ai congedi per malattia del figlio, ma, soprattutto, ai congedi di paternità, spesso in misura superiore rispetto ai giorni già previsti per legge; tutto ciò, nell’ottica di una reinterpretazione del congedo di paternità come congedo a beneficio del secondo genitore non gestante, senza alcuna distinzione di genere. Le scelte appena illustrate si possono senza dubbio inquadrare nell’ambito delle politiche di Diversity, Equality and Inclusion, che hanno un ruolo sempre più pervasivo e centrale nella gestione delle risorse umane aziendali.
Infatti, per mezzo delle politiche di DEI, alcuni tra i temi che più agitano la società civile possono trovare espressione concreta anche all’interno del contesto aziendale, guidando un progresso culturale in termini di sostenibilità umana e sociale, rispetto al quale le aziende hanno senz’altro una decisiva capacità di influenza.
Ma le politiche di DEI sono anche in grado di generare valore per le imprese, sia dal punto di vista della capacità di attrarre e trattenere i migliori talenti (c.d. talent acquisition and retention), che rispetto alle opportunità di business legate alle scelte dei consumatori e degli investitori, che sempre più tendono a privilegiare brand e realtà aziendali inclusive, egualitarie e diversificate.
In conclusione, possiamo quindi ritenere che una virtuosa sinergia tra giurisprudenza e politiche aziendali inclusive potrà almeno in parte colmare, per quanto concerne l’ambiente di lavoro, la disuguaglianza oggi esistente nell’accesso al diritto alla genitorialità, favorendo l’affermazione di un concetto di genitorialità più inclusivo, privo di barriere di genere e orientato al reale interesse del minore.