A cura di Stefano Beretta e Antonio Cazzella
Con sentenza n. 7513 del 27 marzo 2018 la Suprema Corte ha affermato che, nella liquidazione del danno non patrimoniale, il giudice deve procedere a un articolato e approfondito accertamento, in concreto e non in astratto, sull’effettiva sussistenza dei pregiudizi affermati (o negati) dalle parti, dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, al fine di verificare se, come e quando sia mutata la condizione della vittima rispetto alla vita condotta prima del fatto illecito, utilizzando all’uopo anche il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, senza alcun automatismo risarcitorio. Per quanto riguarda il danno alla salute, la Suprema Corte ha precisato che, in presenza di un danno permanente, la misura del risarcimento può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale e peculiari, in quanto quelle normali e indefettibili (ovvero, quelle subite da qualsiasi persona con la medesima invalidità) non giustificano la “personalizzazione” in aumento. Da ultimo, la Suprema Corte ha ricordato che, ove sia correttamente dedotta e adeguatamente dimostrata – oltre al danno alla salute - l’esistenza di ulteriori pregiudizi (sofferenza interiore e sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso), è possibile il risarcimento dei relativi danni (danno morale, danno esistenziale, etc.), ferma restando la necessità di evitare l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici e, quindi, duplicazioni dello stesso risarcimento.