di Teresa Cofano
La cliente Alfa chiedeva al Tribunale l’emissione di un decreto ingiuntivo nei confronti della Compagnia Beta sostenendo di essere titolare di una polizza vita che sarebbe stata stipulata presso l’agenzia locale di Beta a fronte del versamento di un premio unico di € 50.000,00 che sarebbe avvenuto previo riscatto di altra polizza precedentemente sottoscritta. Sennonché, Alfa avrebbe appreso che la nuova polizza era inesistente, perché l’agente ne aveva simulato l’emissione mediante la stampa di un modulo contrattuale che aveva arbitrariamente compilato e sul quale aveva riprodotto firme digitali prestampate dei dirigenti della Compagnia. Di qui la richiesta di ingiunzione, proposta sull’assunto in base al quale la Compagnia sarebbe tenuta a rispondere dell’operato dell’agente, ex art. 2049 c.c..
Emesso il decreto, la Compagnia proponeva opposizione, disconoscendo le firme e i documenti prodotti da Alfa, eccependo la mancanza di prova dell’effettivo versamento della somma ai fini della stipula della polizza in questione e la inapplicabilità dell’art. 2049 c.c.., sottolineando la circostanza che, in base ai poteri conferitigli e resi pubblici nelle forme di legge, l’agente non poteva emettere polizze vita a premio unico e che, in realtà, quello che l’agente aveva svolto era una sorta di “gestione finanziaria” in proprio, facendosi affidare dai clienti somme con modalità del tutto irrituali, se non irregolari, per finalità avulse dall’incarico conferitogli.
Il Giudice di primo grado accoglieva l’opposizione e revocava il decreto ingiuntivo opposto.
Alfa impugnava la sentenza lamentando l’erronea valutazione, da parte del Tribunale, delle risultanze istruttorie (in particolare, della quietanza sottoscritta dall’agente e apposta in calce al contratto e di una dichiarazione di “ricevuta” rilasciata sempre dall’agente) e la mancata considerazione, da parte del primo Giudice, della pendenza di un procedimento penale a carico dell’agente, del comportamento processuale di quest’ultimo (contumacia e mancata comparizione a rendere l’interrogatorio formale); della presenza di precedenti giurisprudenziali che, in analoghe fattispecie, erano pervenuti a conclusioni opposte a quelle della sentenza impugnata.
La Compagnia si costituiva in giudizio confutando i motivi di appello.
La Corte d’appello di Napoli ha respinto l’impugnazione, ritenendo non essere stata fornita, nel caso di specie, una prova convincente dell’affidamento del denaro all’agente per l’attivazione della polizza: intanto, la polizza con il cui capitale di riscatto sarebbe stata accesa la polizza dedotta in giudizio non è stata neppure prodotta; ma, soprattutto, la quietanza sottoscritta dall’agente, peraltro con la dicitura “salvo buon fine”, è una mera dichiarazione di scienza asseverativa, eventualmente, della richiesta di riscatto, ma non anche dell’adempimento dell’obbligazione, prodotto esclusivamente dalla riscossione delle somme. La quietanza, in ogni caso, secondo la Corte non costituisce prova nei confronti della Compagnia, facendo piena prova solo nei rapporti tra solvens e accipiens (agente), e non anche nei confronti della proponente, rispetto alla quale ha un mero valore indiziario, così come non rileva, nei confronti della Compagnia, la condotta processuale del preposto. Quanto al procedimento penale a carico dell’agente e ai “precedenti” giurisprudenziali sulla questione, essi non hanno efficacia vincolante nell’autonomo e diverso giudizio civile.
(Corte appello Napoli, sentenza del 10 maggio 2022)