a cura di Marina Olgiati e Francesco Torniamenti
L’art. 14 del D. Lgs. 14 agosto 2020, n. 104 (c.d. “Decreto Agosto”) ha di nuovo prolungato (si tratta della terza proroga) il divieto per i datori di lavoro di procedere a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ex art. 3, L. n. 604/1966 e di avviare procedure di licenziamento collettivo ex artt. 4, 5 e 24, L. n. 223/1991.
La norma – com’era prevedibile frutto di compromesso tra le forze politiche di Governo, divise tra coloro che volevano una proroga incondizionata del divieto e coloro che ne auspicavano la fine – non è chiara e creerà sicuramente problemi di interpretazione. Da essa si può evincere con certezza che potranno ricorrere a tali tipologie di licenziamento i datori di lavoro che abbiano integralmente usufruito: i) degli ammortizzatori sociali per la causale “COVID-19”, da utilizzare per un periodo massimo di 18 settimane entro il 31 dicembre 2020 (cfr. art. 1, stesso D. Lgs.); ovvero ii) di un esonero contributivo - pari al doppio delle ore di integrazione salariale utilizzate nei mesi di maggio e giugno 2020 - fruibile sino al 31 dicembre 2020 per un periodo massimo di 4 mesi (art. 3, stesso D. Lgs.).
Non è, invece, esplicitato dalla disposizione cosa potranno fare i datori di lavoro che non intendono ricorrere agli ammortizzatori sociali o all’esonero contributivo; per questi sembrerebbe, tuttavia, doversi ritenere preclusa – ancorché ciò sembrerebbe paradossale - la possibilità di licenziare sino al 31 dicembre 2020, ovvero sino al termine massimo in cui potranno avvalersi dei predetti benefici previdenziali.
Sono poi escluse dal divieto e, quindi, autorizzate a licenziare per giustificato motivo oggettivo ed a procedere a licenziamenti collettivi le imprese che: i) cessino totalmente l’attività produttiva perché fallite o poste in liquidazione; ii) stipulino con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale accordi che prevedano la risoluzione, a fronte di incentivo all’esodo, dei rapporti di lavoro intercorrenti con i lavoratori che decidano di aderirvi.
Restano, inoltre, possibili i licenziamenti dei lavoratori impiegati in un appalto a condizione che, per legge o per contratto, l’appaltatore subentrante sia tenuto a riassumere detti lavoratori.
In definitiva, fuori dalle suddette eccezioni, il divieto di licenziamento, da una durata inizialmente prevista di 60 giorni, finirà per avere una vigenza di almeno otto mesi.
Sin dalla prima ora della previsione del divieto, da parte degli addetti ai lavori sono stati avanzati numerosi dubbi di legittimità costituzionale, sotto il profilo che il divieto, obbligando i datori di lavoro a continuare ad avvalersi di forza lavoro in esubero rispetto alle proprie esigenze organizzative / produttive, va indubbiamente a comprimere la libertà dell’imprenditore, garantita dall’art. 41, Cost., di decidere gli assetti organizzativi della propria azienda. Ciò in quanto, come stabilito dalla Corte Costituzionale, il legislatore deve creare le condizioni economiche, sociali e giuridiche che consentano l’impiego di tutti i cittadini, rimuovendo ad esempio norme di natura discriminatoria, ma non può garantire ai cittadini il diritto alla conservazione del posto di lavoro (cfr. Corte Costituzionale 9 giugno 1965, n. 45).
Alcuni interpreti hanno sostenuto che la limitazione della libertà di impresa sarebbe legittima perché decisa da una norma di carattere transitorio ed eccezionale. Tale carattere di emergenza, però, non può più essere ritenuto tale laddove, come sta avvenendo, una misura “provvisoria” venga ripetutamente prolungata per mesi. Si ricorda che, in passato, la Corte Costituzionale (cfr. Corte Costituzionale 19 dicembre 1962, n. 106) aveva dichiarato incostituzionale la L. n. 1027/1960 che, prorogando le disposizioni straordinarie previste dalla c.d. Legge Vigorelli (la quale, in deroga all’art. 39 Cost., aveva temporaneamente conferito efficacia erga omnes ai contratti collettivi esistenti), aveva privato il provvedimento del suo carattere transitorio facendo così venire meno l’esigenza “eccezionale” che sola poteva giustificare la deroga ai precetti costituzionali.
Per quanto sopra, la proroga dell’attuale divieto di licenziamento, che perdurerà persino oltre lo stato di emergenza fissato, allo stato, sino al 15 ottobre 2020, potrebbe dare adito a ragionevoli dubbi di legittimità costituzionale, considerato che i provvedimenti con cui il legislatore sta contravvenendo alla libertà di impresa hanno oramai assunto carattere stabile e non più eccezionale.
Sotto diverso profilo, al di là delle questioni prettamente giuridiche, ci sia consentita una considerazione: il divieto di licenziamento costituisce certamente un provvedimento di sostegno dell’occupazione (peraltro, in un’ottica meramente assistenziale), che non tiene però conto delle esigenze delle imprese e frena la ripresa del mercato del lavoro: non consentire oggi alle imprese (che durante questi mesi hanno inevitabilmente subìto perdite e perso quote di mercato) di riorganizzarsi e ristrutturarsi, anche tramite transitorie riduzioni di organico, significa solo posticipare nel tempo tale soluzione, con la conseguenza di impedirne l’immediata ripartenza per essere di nuovo competitive.