di Anna Maria Corna
La Corte d’Appello di Venezia, con una recentissima sentenza ed in riforma di quella di primo grado, ha ritenuto legittimo il licenziamento di una lavoratrice madre, stante, da un lato, la gravità del suo comportamento, e, dall’altro, la mancanza di qualsivoglia prova che lo stato di gravidanza potesse aver inciso sulla capacità della lavoratrice di comprendere i fatti posti in essere.
Invero la dipendente, in concorso con dei colleghi, aveva favorito l’attività di altra società, in diretta concorrenza con il proprio datore di lavoro, effettuando più comportamenti contrari a tutte le procedure aziendali, a delle norme di legge, tra cui quelle antiterrorismo del D.L. 27 luglio 2005 n. 144 (conv. in legge n. 155 del 31 luglio 2015), con false attestazioni su documenti cartacei e dati non corretti inseriti nel sistema informatico aziendale, con anche un danno economico per il datore di lavoro.
La Corte di Venezia, dopo aver rammentato che nel caso di lavoratrice madre per la sussistenza di una giusta causa, che deroga al divieto di licenziamento di cui all’art. 54 del D. Leg. n. 151/2001, è necessaria una colpa molto grave e non è sufficiente che il comportamento rientri nelle previsioni della contrattazione collettiva di settore, ha dettagliatamente descritto i fatti – pacifici tra le parti – rilevando tutte le suddette violazioni, tra cui, in particolare, agli obblighi di fedeltà.
Inoltre la Corte ha sottolineato che nell’ambito dell’analisi dell’elemento soggettivo è indispensabile la “verifica se il particolare stato di gestante possa avere influito sulle capacità di discernimento e valutazione della gravità delle proprie condotte” e, nel caso in esame, ha evidenziato che “non risulta provato in giudizio, che le condotte contestate …fossero state influenzate dallo stato di maternità (iniziato circa un mese prima dei fatti addebitati), né che la lavoratrice fosse affetta da un malessere fisico che le avesse impedito di comprendere la gravità delle violazioni procedurali commesse e l’effetto delle proprie condotte, venendo meno così il requisito della necessità che le condizioni psicofisiche legate allo stato di gestazione abbiano operato come fattori causali o concausali del comportamento sanzionato”.
Indi ripresi i fatti contestati e sottolineato che da questi era evidente “la violazione del dovere di fedeltà che gravava sulla lavoratrice che con la propria condotta aveva favorito imprese terze che operavano in concorrenza con la società datrice di lavoro”, la Corte ha rilevato che in relazione a ciò “non è dato sapere come la sussistenza dello status di gravidanza possa aver avuto peso di riduzione o esimente/scriminante tale da elidere l’elemento colpevolezza con riferimento ai fatti di causa”.
Secondo la Corte di Venezia, quindi, “La complessità della condotta e la pluralità delle infrazioni commesse impedisce di qualificare la condotta come fatto sanzionabile con sanzione conservativa; in particolare tenuto conto delle norme richiamate nella lettera di recesso” (che ha citato la disciplina collettiva, oltre l’art. 2119 c.c.) e
La sentenza merita particolare attenzione, considerata la limitata giurisprudenza su questa materia e che nel caso di licenziamento della lavoratrice madre “non è sufficiente la mera sussistenza di un giustificato motivo soggettivo ovvero di una fattispecie individuata dalla contrattazione collettiva quale giusta causa, dovendosi per contro verificare la presenza di quella colpa specificatamente qualificata dalla suddetta norma come "grave" e per l'effetto quindi diversa da quella considerata dai c.c.n.l. per i generici casi di inadempimento del lavoratore puniti con la sanzione espulsiva” (Cass. sez. lav. - 26/01/2017, n. 2004; conf. Corte appello sez. lav. - Palermo, 28/07/2021, n. 937; Tribunale sez. lav. - Roma, 19/03/2019, n. 2635), si che raramente viene ritenuta integrata una colpa così grave.