Causa seguita dagli avv.ti Marina Olgiati e Francesco Torniamenti
Trib. Napoli, 6 marzo 2018, ord.
In presenza di mutate strategie aziendali e di riassetti organizzativi, il datore di lavoro ben può rimodulare i ruoli professionali del personale, ridefinendone i compiti e assegnando nuovi obiettivi, alla condizione che ne mantenga immutato il livello di inquadramento e rispetti le conoscenze professionali acquisite.
Il principio è stato pronunciato dal Tribunale di Napoli in un caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in cui un dipendente - licenziato per soppressione della posizione lavorativa - aveva contestato le ragioni poste a fondamento del recesso, ovvero la riorganizzazione aziendale da cui era derivata l’eliminazione di alcune posizioni lavorative e la loro sostituzione con altri ruoli, nonché la sua assegnazione ad una delle dette nuove posizioni, poco dopo eliminata. Precisamente, il lavoratore sosteneva che il datore di lavoro avesse simulato il riassetto aziendale e che lo avesse assegnato ad una posizione creata ad hoc, destinata ad essere cancellata, al malcelato fine di procedere, da lì a poco, alla risoluzione del suo rapporto e di precostituirsi la motivazione del recesso. Inoltre, secondo il dipendente, l’introduzione della posizione a lui assegnata e delle altre nuove era, comunque, avvenuta illegittimamente, in quanto, così facendo, l’azienda aveva “riclassificato” il personale con modalità operative difformi da quelle previste dal contratto collettivo: a suo dire, questa circostanza rendeva, di per sé, illegittimo il licenziamento.
Il Tribunale, tuttavia, ha accertato l’effettività sia della riorganizzazione alla base della ridefinizione dei ruoli del personale sia della soppressione della posizione attribuita al dipendente, confermando il licenziamento, una volta verificato anche l’assolvimento dell’obbligo di repechage da parte dell’azienda.
In merito alla riorganizzazione, il Giudice ha escluso che, con l’introduzione di nuovi ruoli lavorativi – non contemplati nei profili professionali previsti dal contratto collettivo nazional, l’azienda avesse unilateralmente “riclassificato” il personale in violazione delle procedure previste dallo stesso CCNL. Al riguardo, va detto che, nel caso giudicato, veniva in considerazione l’art. 99 del contratto collettivo del terziario, secondo cui le parti sottoscrittrici devono consultare la Commissione Paritetica Nazionale quando devono essere introdotte nuove figure professionali di “significato e valenza generale” - ovvero diffuse in tutto il settore del terziario, a livello nazionale - in relazione a “processi di trasformazione e innovazione tecnologica”. Ma - secondo il Tribunale – la disposizione non trovava applicazione nella fattispecie: invero, le nuove posizioni non erano a diffusione nazionale, bensì peculiari dell’organizzazione di quel datore di lavoro; non si trattava di figure che espletavano attività nuove, perché i compiti ad esse inerenti erano di contenuto già contemplato dalla declaratoria del livello contrattuale di riferimento e di pari responsabilità, ed erano il risultato di adattamenti organizzativi interni dell’azienda datrice. Non era, dunque, stata attuata alcuna “riclassificazione”, perché la datrice non aveva modificato o alterato le aree di classificazione del personale, riducendo o ampliando i livelli di inquadramento previsti dal CCNL.
Infine, non aveva rilievo la circostanza che la nuova posizione assegnata al lavoratore licenziato non fosse prevista nell’elenco dei profili professionali indicati dal CCNL; tale elenco, infatti, ha portata meramente esemplificativa e, quindi, non è vincolante per il datore di lavoro, che può assegnare ai propri dipendenti anche ruoli diversi da quelli specifici individuati dal contratto collettivo.