Avv. Antonio Cazzella – Trifirò & Partners Avvocati
Con la recente sentenza n. 59 del 1° aprile 2021 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300 (c.d. Statuto dei Lavoratori), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può applicare” – invece che “applica altresì” – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma, che stabilisce la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegrazione, nella misura massima di dodici mensilità, dedotto quanto percepito per effetto di altri rapporti di lavoro, nonché di quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.
La precedente formulazione dell’art. 18 Stat. Lav., settimo comma, consentiva infatti al giudice – ove accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento – la “facoltà” discrezionale di applicare la tutela reintegratoria in luogo della tutela risarcitoria prevista dall’art. 18, quinto comma (ovvero, un’indennità risarcitoria omnicomprensiva, determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto).
La giurisprudenza di legittimità, nel tentativo di “armonizzare” la differente tutela prevista dall’art. 18, settimo comma, nell’ipotesi di licenziamento per ragioni organizzative con la tutela stabilita dall’art. 18, quarto comma, per il licenziamento disciplinare (che dispone, come detto, la tutela reintegratoria nel caso di accertata insussistenza del fatto contestato) aveva interpretato l’art. 18, settimo comma, nel senso di ritenere applicabile la reintegrazione “salvo che, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, tale regime sanzionatorio non risulti incompatibile con la struttura organizzativa dell'impresa e dunque eccessivamente oneroso per il datore di lavoro” (cfr., ex plurimis, Cass. 3 febbraio 2020, n. 2366).
La Corte Costituzionale ha ricordato che, nel caso di licenziamento per ragioni organizzative, spetta al datore di lavoro dimostrare il nesso causale che collega il recesso alle scelte organizzative nonchè l’impossibilità di reperire una differente collocazione lavorativa (c.d. obbligo di repechage).
Tanto premesso, con specifico riferimento all’art. 18 Stat. Lav., settimo comma, la Corte Costituzionale ha chiarito che la facoltà discrezionale del giudice rispetto alla tutela reintegratoria contrasta con l’art. 3 Cost. e, più precisamente, con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, in quanto si ravvisa una chiara disarmonia tra la tutela reintegratoria prevista per il licenziamento disciplinare (nell’ipotesi di insussistenza del fatto contestato) e la tutela reintegratoria “facoltativa” stabilita per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (nell’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto a base del recesso).
In particolare, la Corte Costituzionale ha evidenziato che “l’esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di riscontro, lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore”; la Corte Costituzionale ha quindi precisato che “è sprovvisto di un fondamento razionale anche l’orientamento giurisprudenziale che assoggetta a una valutazione in termini di eccessiva onerosità la reintegrazione dei soli licenziamenti economici, che incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore”.
La Corte Costituzionale ha conclusivamente evidenziato, quanto all’interpretazione adottata dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, che il riferimento ad un mutamento della struttura organizzativa dell’impresa può prestarsi a condotte elusive e può peraltro intervenire a distanza di molto tempo dal recesso, configurandosi, inoltre, come una specie di “elemento accidentale”, del tutto privo di nesso con la gravità della singola vicenda di licenziamento; in questa prospettiva sarebbe quindi “manifestamente irragionevole la scelta di riconnettere a fattori contingenti, e comunque determinati dalle scelte del responsabile dell’illecito, conseguenze di notevole portata, che si riverberano sull’alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria”.