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La Corte Costituzionale interviene ancora sull’art. 18: reintegrazione e manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo

Di Tommaso Targa

Con sentenza n. 125/2022 del 19 maggio 2022, a distanza di 10 anni esatti dalla legge Fornero (l. 92/2012), la Corte Costituzionale è tornata a pronunciarsi sull'art. 18 St. Lav., intervenendo su uno degli aspetti più controversi della norma, così come allora modificata dalla riforma. La sentenza ha infatti dichiarato incostituzionale l’art. 18, settimo comma, secondo periodo, nella parte in cui tale norma prevedeva la reintegrazione – nel caso di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo – solo in ipotesi di “manifesta insussistenza” del motivo addotto. La norma riconosceva, invece, esclusivamente la tutela economica (da 12 a 24 mensilità) nei casi “meno eclatanti” di licenziamento sorretto da illegittimo motivo oggettivo, per l’appunto “non manifesto”. La Corte si è quindi soffermata su questa diversità di tutela, rilevandone l’illogicità sotto diversi profili.

La questione di legittimità è stata sollevata dal Giudice del Lavoro di Ravenna con ordinanza del 6 maggio 2021, nell’ambito di un giudizio di opposizione promosso dal datore di lavoro secondo il “rito Fornero” avverso una ordinanza dello stesso Tribunale che – in un caso di licenziamento per giustificato motivo – lo aveva condannato alla reintegrazione del lavoratore. L’opposizione era basata proprio sulla asserita non manifesta insussistenza del motivo oggettivo addotto: di qui la rilevanza della questione nel giudizio a quo. Come evidenziato sinteticamente nella parte in fatto della sentenza della Corte, alcuni aspetti della vicenda oggetto di tale giudizio a quo rendevano il licenziamento esaminato, e la relativa opposizione, particolarmente problematici: infatti, il lavoratore, nel giro di alcuni mesi, era stato licenziato due volte per giusta causa e una volta per giustificato motivo oggettivo, venendo sempre reintegrato. Ciò lascerebbe ipotizzare una forte conflittualità dei rapporti tra le parti, e la plausibile strumentalità del motivo oggettivo addotto.  

La Corte Costituzionale ha fatto propri i profili di illegittimità sollevati dal giudice rimettente. Anzitutto, ha ritenuto violato il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.: la gradualità della tutela nella fattispecie di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo  (reintegrazione solo in caso di manifesta insussistenza; indennizzo negli altri casi) è ingiustificata, tenuto conto che i) in ipotesi di licenziamento per ragioni soggettive la reintegra non richiede alcuna manifesta illegittimità del motivo; ii) analogamente, in ipotesi di licenziamento collettivo, il vizio sostanziale (violazione dei criteri di scelta) comporta sempre la reintegrazione, a prescindere dalla gravità di tale vizio. Insomma, la Corte Costituzionale ha ritenuto che la distinzione sul grado di illegittimità del licenziamento, nella sola ipotesi di giustificato motivo oggettivo individuale, costituisse una discriminazione dei lavoratori licenziati per GMO, rispetto alla posizione di coloro che sono stati licenziati per ragioni disciplinari o nell'ambito di un licenziamento collettivo, ai quali la reintegrazione è sempre riconosciuta quando il motivo di licenziamento non è sussistente (vizio sostanziale), senza distinguo in relazione alla natura plateale o meno del suddetto vizio.

La Corte Costituzionale ha rilevato altresì l’irragionevolezza dell’art. 18, nella parte oggetto di esame, poiché la necessità di effettuare una distinzione tra motivo oggettivo, manifesto e non, comporta inevitabili incertezze applicative, andando ad ampliare eccessivamente il “fisiologico” margine di discrezionalità del Giudice nella valutazione del caso concreto. Sul punto, la sentenza ha lucidamente argomentato: “La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse è rimessa a una valutazione non ancorata a precisi punti di riferimento, tanto più necessari quando vi sono fondamentali esigenze di certezza, legate alle conseguenze che la scelta stessa determina …  Il requisito della manifesta insussistenza demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico. Non solo il riferimento alla manifesta insussistenza non racchiude alcun criterio idoneo a chiarirne il senso; esso entra anche in tensione con un assetto normativo che conferisce rilievo al fatto e si prefigge in tal modo di valorizzare elementi oggettivi, in una prospettiva di immediato e agevole riscontro. La sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi.

Ulteriore profilo di irragionevolezza è stato rinvenuto nella parte in cui l’art. 18, tutelando il lavoratore con la reintegrazione nei soli casi di motivo illegittimo “manifesto”, provoca una sorta di parziale inversione dell'onere della prova, costringendo il lavoratore a dimostrare, o quanto meno argomentare, la gravità del vizio. Senza contare che la natura palese dell’insussistenza del motivo non incide sul disvalore del comportamento datoriale, ma solo sulla facilità dell’accertamento del vizio.  Sotto questo profilo, la motivazione della sentenza richiama in più passaggi la precedente pronuncia n. 59/2021 con cui la stessa Corte Costituzionale ha dichiarato l’art. 18 comma 7 incostituzionale nella parte in cui prevedeva la possibilità del giudice, non l’automaticità, della reintegrazione nel caso di manifesta insussistenza del motivo oggettivo.

L’esito dei due interventi della Corte Costituzionale sull’art. 18 comma 7 St. Lav. (la sentenza n. 59/2021 e quella in commento, n. 125/2022) ci restituisce una norma profondamente modificata rispetto alla versione originaria post riforma Fornero. Originariamente, in ipotesi di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, la reintegrazione costituiva una ipotesi di fatto residuale, se non una extrema ratio, prevista a discrezione del Giudice (che, per vero, nella prassi applicativa optava sempre per disporla), e solo in caso di manifesta insussistenza, ossia di vizio palese / eclatante del licenziamento. In tutti gli altri casi, come regola generale, era invece prevista la tutela economica (indennizzo compreso tra 12 e 24 mensilità). La Corte ha capovolto l’assetto della norma, facendo diventare la reintegrazione la tutela normale in caso di licenziamento individuale per ragioni oggettive, e residuale la tutela indennitaria.

Restano aperte due questioni. La prima riguarda l’ambito di applicazione della – ormai residuale – tutela indennitaria. Al quesito ha cercato di dare risposta la stessa sentenza in commento, nella parte motiva, laddove – richiamando una recente pronuncia della Cassazione (sentenza 19 maggio 2021, n. 13643) ha statuito: “Rientrano nell’area della tutela indennitaria le ipotesi in cui il licenziamento è illegittimo per aspetti che, pur condizionando la legittimità del licenziamento, esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto. In tale ambito si colloca il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile”.

In altre parole, se un lavoratore viene licenziato per soppressione della sua posizione lavorativa, egli avrà diritto alla reintegrazione ove fosse dimostrato che tale posizione non è stata soppressa. Gli spetterebbe invece il solo indennizzo se - in presenza di un certo numero di lavoratori che espletava mansioni identiche o simili, e di accertato esubero di una sola posizione tra quelle equivalenti - il lavoratore licenziato è stato scelto in malafede, dovendo invece essere sacrificato un collega ad esito di un raffronto basato su anzianità e carichi di famiglia (in analogia con i criteri previsti dalla l. 223/1991 sui licenziamenti collettivi). Rimane una zona grigia, il repechage. Tenuto conto delle numerose oscillazioni della giurisprudenza di legittimità e di merito, non è chiaro se la mancata ricollocazione del lavoratore in esubero su una posizione vacante costituisca anch’essa una ipotesi residuale, ovvero rientri nella fattispecie generale di insussistenza del motivo addotto. Probabilmente la valutazione spetterà al giudice del singolo caso, tenuto conto della motivazione addotta dal datore di lavoro nella lettera di licenziamento, e delle prove acquisite nel giudizio.

La seconda questione riguarda, invece, l’impatto che questa sentenza potrà avere a) nell’orientamento della giurisprudenza di merito, influenzando le pronunce relative ai licenziamenti sub jobs act (art. 3 del d.lgs. 23/2015), e b) in future decisioni della Corte Costituzionale relative alla disciplina del jobs act, ove ne fosse sollevata la relativa questione di legittimità. Quanto al primo aspetto, la sentenza in commento è irrilevante, sia perché riguarda una norma diversa, sia perché nel jobs act il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo è sanzionato con la reintegrazione solo in ipotesi di motivo illecito determinante. Quanto, invece, al secondo aspetto, vi è il rischio che gli argomenti utilizzati dalla Corte Costituzionale  per dichiarare l’illegittimità dell’art. 18 comma 7 possano essere utilizzati dai giudici di merito per sollevare questioni di legittimità costituzionale della nuova disciplina sub jobs act (applicabile ai lavoratori assunti dopo marzo 2015). Basti pensare al profilo della violazione dell’art. 3 Cost., in relazione alla diversità di tutela riconosciuta ai lavoratori licenziati per ragioni disciplinari rispetto a quelli licenziati per ragioni oggettive: profilo che a questo punto potrebbe valere, mutatis mutandis, anche in relazione all’art. 3 del d.lgs. 23/2015.


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