di Federico Manfredi
Uno degli ambiti dove il dibattito giurisprudenziale è sempre vivo e mutevole è rappresentato dalla compatibilità fra rapporto di lavoro subordinato e carica sociale, quando questi facciano capo allo stesso soggetto, che si trovi, dunque, investito tanto della situazione soggettiva di lavoratore dipendente della società, quanto di quella di membro di un organo sociale. Ciò non è da ricondursi alla mutevolezza dei principi di diritto governanti tale fattispecie - che risultano tutto sommato ben assestati nel panorama giurisprudenziale nazionale -, bensì il fenomeno trae le sue origini nella vasta gamma delle situazioni concrete, che possono presentarsi al vaglio del giudicante, il quale di volta in volta si troverà sempre di fonte a forme di governo societarie differenti da quelle precedentemente vagliate.
Così è accaduto anche nel caso affrontato dalla recente ordinanza del 27 gennaio 2022, n. 2487, che si è trovata a giudicare una fattispecie molto frequente nel tessuto imprenditoriale del Paese: quella di due soci “gemelli” al 50% di una S.r.l., che - allo stesso tempo - sono sia membri del C.d.A., sia lavoratori dipendenti della stessa.
Più nel dettaglio, la controversia era insorta a seguito del verbale d’accertamento, con cui l’INPS aveva disconosciuto la genuinità del rapporto di lavoro subordinato dei due soci, proprio in ragione della loro carica (esclusiva) di membri del C.d.A. della società datoriale, tesi che era stata da ultimo sposata dalla Corte territoriale, la quale aveva confermato il verbale dell’Ente di Previdenza.
La Cassazione ha, invece, ribaltato la situazione, dando ragione alla società ricorrente proprio sulla base degli stessi fatti presi in considerazione in precedenza dal verbale d’accertamento e dal giudice di merito.
Infatti, secondo la Suprema Corte, la qualità di entrambi di membri del C.d.A. al 50%, non osta affatto alla costituzione di un vincolo di subordinazione con la società amministrata e del relativo potere conformativo di quest’ultima sulla loro prestazione lavorativa.
Al contrario, è proprio la necessità di una decisione congiunta di entrambi i soci sulle scelte gestionali (e la conseguente decisività della volontà di ognuno dei due nel processo decisionale) a suggerire alla Cassazione conclusioni differenti.
Infatti, osserva la Suprema Corte, i due quotisti consiglieri al 50% non possono adottare autonome decisioni gestorie sul proprio rapporto di lavoro, in quanto si troverebbero in posizione di stallo paritario, ma necessitano, invece, di una decisione congiunta sulle scelte gestionali (comprese quelle relative al personale).
Dunque, in tale situazione, non esisterebbe in capo a ciascuno dei due amministratori un autonomo potere direttivo sul proprio rapporto di lavoro. Al contrario, tale potere direttivo – secondo la Cassazione - deve ritenersi conferito a un terzo centro decisionale: il C.d.A. nella sua dimensione sovrapersonale e collegiale.
Così, per semplificare, ciascuno dei due soci viene eterodiretto dal necessario consenso dell’altro nella formazione del quorum deliberativo del 50+1% e – conseguentemente – i rapporti di lavoro instaurati fra la società e quest’ultimi sono da ritenersi inter-compatibili e genuini, in assenza di idonea prova contraria da parte dell’Ente accertatore.
Trattasi di pronuncia che fornisce un analisi indubbiamente rigorosa e formalistica, fondata sul dato “matematico-proporzionale” della quota deliberativa nella società di capitali. Ma, cionondimeno, l’ordinanza in parola contribuisce indubbiamente ad arricchire il “mosaico” giurisprudenziale in materia di cariche sociali e lavoro subordinato, con una tessera, peraltro, di dimensioni non trascurabili considerando la vasta adozione del modello paritario fifty-fifty nel panorama imprenditoriale italiano.