A cura di Vittorio Provera
Una questione di rilevante interesse, ancora fortemente dibattuta in giurisprudenza a livello nazionale ed europeo, è relativa all’individuazione dei requisiti necessari affinché una struttura aziendale possa qualificarsi, in concreto, come ramo di azienda, ai sensi dell’art. 2112 c.c., ai fini della continuità presso il cessionario dei rapporti di lavoro instaurati con l’impresa cedente.
Il tema assume connotati problematici nelle ipotesi in cui, oggetto del trasferimento, sia sostanzialmente un gruppo di dipendenti, cioè nei casi in cui l’attività esercitata si fondi essenzialmente sulla mano d’opera.
Si tratta di attività definite “labour intensive, per la realizzazione delle quali è richiesto l’impiego di una struttura produttiva costituita, in via esclusiva o almeno fortemente prevalente, di dipendenti.
Al riguardo va segnalata, dapprima, una recente pronuncia della Suprema Corte ( n. 1769 del 24 gennaio 2018), che ha esaminato una ipotesi di cessione avente ad oggetto una rete di informatori medico-scientifici, non accompagnata dal trasferimento dell’intera organizzazione del ramo cui essi erano addetti.
Il contenzioso ha preso spunto da una domanda formulata da due lavoratori, innanzi al Tribunale del lavoro di Milano, volta a far dichiarare la nullità della propria assegnazione ad un ramo di azienda, operata dalla cedente di cui erano dipendenti, ad altra azienda cessionaria. Gli stessi chiedevano, pertanto, l’accertamento della sussistenza dell’originario rapporto di lavoro con la società cedente.
Proposta impugnativa - in seguito al rigetto delle domande dei lavoratori da parte del giudice di primo grado - in sede di appello era esclusa la configurazione di una cessione di ramo di azienda, difettando nel caso di specie il requisito della preesistenza di un’entità economica organizzata che conservi la sua identità a fronte della cessione, stante la discontinuità della loro attività lavorativa presso la cessionaria. Quindi i giudici di secondo grado statuivano il ripristino, senza soluzione di continuità, del rapporto dei lavoratori con la cedente, posto che non avevano prestato alcun consenso alla cessione del contratto di lavoro alla società cessionaria.
La società cedente promuoveva ricorso per Cassazione, deducendo, in particolare, che il requisito della preesistenza non doveva ritenersi più necessario a norma del novellato testo dell’art. 2112 c.c., comma 5, in presenza di una lieve modificazione dell’attività dei lavoratori con esso trasferiti.
L’azienda, inoltre, asseriva che il ramo di azienda ceduto doveva ritenersi autonomo, in quanto non aveva subito alcuna alterazione, ed era stato trasferito un know-how adeguato, consistente in un insieme di conoscenze generali, anche non specialistiche, coerente con il bagaglio professionale dei lavoratori del ramo di azienda ceduto.
Tali motivi non sono stati ritenuti condivisibili, poiché la Suprema Corte - in continuità con un indirizzo già assunto - ha ritenuto che, ai fini del trasferimento di ramo di azienda ex art. 2112 c.c., costituisce elemento costitutivo della cessione l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ossia la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali e organizzativi, senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario.
Nel caso in esame, la Corte ha ritenuto insussistenti i presupposti di configurazione di un ramo di azienda, data l’assenza del trasferimento di un know-how individuabile in una particolare specializzazione del personale trasferito.
Sempre in motivazione si è sottolineato che la novellazione dell’art. 2112 c.c., ad opera dell’art. 32, d.lgs. n. 276/2003 ( in attuazione della direttiva 2001/23/CE) non avrebbe mutato la nozione giuridica di ramo di azienda, il quale continua a dover essere identificato in una entità economica organizzata, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, sul presupposto quindi di una preesistenza.
A fronte di tale statuizione si segnala, tuttavia, una difforme successiva sentenza di merito emessa dal Tribunale di Roma, in data 5 marzo 2018, n. 1647, in cui si critica il citato orientamento prevalente, che viene ritenuto non del tutto conforme a quanto espresso a livello europeo.
La controversia di merito prendeva origine dai seguenti fatti. All’interno di un’azienda era organizzata una direzione dedicata agli interventi di riparazione, assistenza e manutenzione di apparecchiature vendute dalla società a terzi. Nell’ambito di tale direzione erano presenti ( oltre ai tecnici impegnati nei servizi di assistenza) un insieme di funzioni deputate ad organizzare servizi di supporto alle attività dei tecnici; ad esempio una funzione che doveva ricevere le richieste di intervento e provvedeva a smistarle; una che si dedicava a reperire i pezzi di ricambio, nonché altre funzioni.
La Società aveva quindi ceduto a terzi l’insieme di tale struttura di supporto, destinata ad erogare i servizi all’attività dei tecnici e al personale dedicato alla manutenzione ed assistenza, che era rimasta in capo alla cedente.
I ricorrenti chiedevano di accertare la permanenza del rapporto di lavoro alle dipendenze della cedente, contestando l’applicabilità dell’art. 2112 c.c. al trasferimento in questione, posto che la struttura trasferita non era in grado di rendere un autonomo servizio in quanto priva di dirigenti, tecnici e strumenti materiali idonei.
Il Tribunale di Roma ha rigettato il ricorso, riconoscendo nella struttura trasferita tutti gli elementi qualificanti del ramo di azienda, fornendo una interpretazione della Direttiva europea, in controtendenza rispetto alla giurisprudenza consolidata nazionale
Il tema è stato affrontato dalla Corte di Giustizia dell’UE (CGUE) nell’ambito dei giudizi aventi ad oggetto la compatibilità con la Direttiva europea “concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti” (Direttiva 2001/23/CE).
La CGUE ha ammesso che l’entità economica oggetto di cessione possa essere costituita da un gruppo di lavoratori, quando l’attività produttiva abbia natura tale da poter essere svolta, in via prevalente o esclusiva, senza l’impiego di rilevanti beni materiali.
In questi casi, il gruppo di lavoratori deve sì possedere una sufficiente autonomia, ma ciò non significa – ad opinione del Tribunale – che il ramo d’azienda è tale solo se integra una entità totalmente autosufficiente rispetto alla restante parte dell’impresa cedente. Si deve infatti considerare naturale che le strutture, deputate ad un certo servizio, debbono comunque coordinarsi con altre funzioni dell’impresa. Inoltre, nel caso in cui l’entità economica consista in un gruppo di lavoratori, è considerato integrato il requisito del “mantenimento dell’identità”, quando il nuovo datore di lavoro prosegua l’attività, assumendo una parte sostanziale, in termini di numero e di competenze, di detti lavoratori.
Nel caso di specie il ramo ceduto conteneva l’insieme delle strutture destinate ad erogare i servizi di supporto all’attività dei tecnici di assistenza che continuavano ad operare presso la cedente.
Sul punto si sviluppa la parte più innovativa della sentenza, poiché - per il Tribunale di Roma - la Direttiva 23 del 2001, anche in base all’interpretazione della giurisprudenza comunitaria, è applicabile anche qualora “ il cessionario assuma la veste di appaltatore del cedente e questi conservi un intenso potere di supremazia verso il primo…….Non risulta da alcuna disposizione della Direttiva 23 ……che il legislatore dell’ Unione abbia voluto che l’indipendenza del cessionario nei confronti del cedente costituisse un presupposto per l’applicazione della Direttiva stessa.... E’ irrilevante il fatto che le società di che trattasi siano impegnate nell’esecuzione della stessa opera (sentenza 2 dicembre 1999, Allen, C.234/98)…..Di conseguenza, una situazione....in cui l'impresa cedente esercita nei confronti del cessionario uno stretto vincolo di committenza ed una commissione del rischio d'impresa, non può costituire, di per se, un ostacolo all'applicazione della direttiva... e questo perché tali limitazioni si porrebbero in contrasto con l'obiettivo di tale direttiva, che è di garantire, per quanto possibile, il mantenimento dei diritti dei lavoratori, in caso di cambiamento dell'imprenditore, alle stesse condizioni pattuite con il cedente” .
La controversia viene quindi risolta in modo difforme dall’ orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, dedicata all’interpretazione dell’art. 2112 c.c., ritenuto non aderente all’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia Europea in materia. Si tratta di decisione che riveste un notevole interesse per la sua novità nel panorama giurisprudenziale e per il modo in cui esamina i contenuti e scopi della citata Direttiva, il cui fine principale sarebbe di tutelare l’interesse dei lavoratori al passaggio ed alla conservazione dei diritti nel passaggio a terzi e non di comprimere detti trasferimenti. E’ peraltro presumibile che detto contrasto alimenti un contenzioso, stimolando forse la ricerca di un nuovo punto di equilibrio tra diversi interessi.