Di Avv. Jacopo Moretti, Trifirò & Partners
Con la recente sentenza n. 17689 del 31 maggio 2022 la Corte di Cassazione si è pronunciata sul caso di un dirigente, che ricopriva la qualifica di Direttore Generale, licenziato per giusta causa dopo avere manifestato le proprie riserve sulla valutazione di alcune poste contabili inserite nella bozza di bilancio e avere letto, nel corso di un consiglio di amministrazione, un documento in cui manifestava critiche al bilancio, prospettando la configurazione di reati; critiche che, a detta del datore di lavoro, erano sostanzialmente infondate.
La Corte d’Appello di Brescia riteneva il licenziamento sorretto da giusta causa, o quanto meno da giustificatezza, rilevando come il dirigente si fosse volontariamente posto in contrapposizione con le scelte adottate dagli organi gestionali della società e come, quindi, non potesse sussistere alcun rapporto di fiducia e che la sostanziale infondatezza delle critiche espresse alla bozza di bilancio corroborava la fondatezza del licenziamento.
La Corte di Cassazione ha, invece, ribaltato il verdetto della Corte d’Appello.
Da un lato, ha richiamato i principi secondo i quali la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti in azienda non può di per sé integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a condizione che non emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima, che richiede la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi, e purché il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.
Dall’altro lato, ha osservato che l'obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. in capo al lavoratore non può essere esteso sino a imporre allo stesso di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all'interno dell'azienda, poiché in tal caso si correrebbe il rischio di scivolare verso - non voluti, ma impliciti - riconoscimenti di una sorta di "dovere di omertà" (ben diverso da quello di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento. Ciò sul rilievo che lo Stato di diritto attribuisce valore civico e sociale all'iniziativa del privato che solleciti l'intervento dell'autorità giudiziaria di fronte alla violazione della legge penale e, sebbene ritenga doverosa detta iniziativa solo nei casi in cui vengono in rilievo delitti di particolare gravità, guarda con favore alla collaborazione prestata dal cittadino, in quanto finalizzata alla realizzazione dell'interesse pubblico alla repressione dei fatti illeciti.
Dall’altro lato ancora, ha rilevato, con particolare riferimento al rapporto di lavoro dirigenziale, che il legame fiduciario che caratterizza tale rapporto non può determinare alcuna automatica compressione del diritto di critica, di denuncia e di dissenso spettante, secondo i principi costituzionali e le norme dell’ordinamento, al lavoratore. Dal che consegue che anche nel rapporto di lavoro dirigenziale e ai fini della giustificatezza del recesso, il giudice di merito deve procedere ad una accurata opera di componimento tra l'accentuato obbligo di fedeltà - legame fiduciario - del dirigente e il diritto di critica, di denuncia e di dissenso al medesimo spettante, escludendo che l'esercizio di tali diritti, ove avvenga nei limiti già tracciati dalla giurisprudenza e quindi in maniera ragionevole e non pretestuosa nonché con modalità formalmente corrette, possa integrare di per sé la nozione di giustificatezza del licenziamento.
In applicazione dei principi di cui sopra, la Corte di Cassazione ha concluso che non integra di per sé la giustificatezza del licenziamento la condotta del dirigente - direttore generale che, anche al fine di non incorrere in responsabilità verso la società per atti e comportamenti degli amministratori, eserciti, in maniera non pretestuosa, il diritto al dissenso nelle sedi proprie, di cui all'art. 2392 cod. civ. vale a dire in sede di consiglio di amministrazione, con modalità non diffamatorie o offensive.