A cura di Antonio Cazzella e Stefano Beretta
Con sentenza n. 11645 del 14 maggio 2018 la Corte di Cassazione ha ricordato che un corretto esercizio del diritto di critica non assume rilievo disciplinare, confermando l’illegittimità del licenziamento intimato ad una lavoratrice che, nel caso di specie, si era limitata - senza utilizzare termini offensivi o, comunque, inappropriati – ad inviare alcune email contenenti delle rimostranze relative alla propria posizione lavorativa: in particolare, è stato rilevato che le modalità utilizzate dalla dipendente erano coerenti con la situazione di tensione individuale, scaturente anche da un precedente contenzioso con la società, in esito al quale era stata emessa una sentenza di accertamento del suo diritto al superiore inquadramento. Con sentenza n. 10897 del 7 maggio 2018 la Suprema Corte ha ritenuto, invece, legittimo il licenziamento intimato ad un sindacalista, il quale aveva pubblicato due articoli da lui redatti in materia di welfare aziendale, che avevano un contenuto non veritiero e lesivo dell’immagine del datore di lavoro (una banca); in particolare, è stato evidenziato che, sebbene la funzione di rappresentante sindacale svolta dal dipendente ponesse lo stesso su un piano “paritetico” rispetto al datore di lavoro, abilitandolo ad esercitare il diritto di critica, pur tuttavia tale diritto doveva essere legittimamente esercitato nei limiti del rispetto oggettivo della verità. Tale limite era stato superato allorchè il dipendente, nei due articoli, aveva addebitato alla banca l’indicazione e la diffusione di dati falsi relativi al Piano di Welfare aziendale del 2012, non provandone, tuttavia, l’effettiva falsità ed affidando i propri scritti ad un blog ed un account di posta elettronica ad altissima diffusione.