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Dimissioni annullabili se rassegnate dal lavoratore stressato ed insoddisfatto

Scritto da Admin | 11 gennaio 2019

Dimissioni annullabili se rassegnate dal lavoratore stressato ed insoddisfatto

A cura di Enrico Vella

 

Il contesto lavorativo fonte di stress e di insoddisfazione per il lavoratore può portare all’annullamento delle dimissioni dal rapporto di lavoro.

Così si è pronunciata la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza del 21.11.2018 n. 30126.

Il lavoratore sosteneva che la decisione di rassegnare le dimissioni, peraltro precedentemente minacciate, era stata presa in un momento di “notevole turbamento psichico” maturato in un contesto lavorativo di forte stress e di insoddisfazione e, dunque, in condizioni di incapacità psichica e volitiva.

La decisione di rassegnare le dimissioni, anche se non accompagnata dalla denuncia di un comportamento datoriale mobbizzante o illegittimo, era l’epilogo consapevole di una condizione di malessere lavorativo e non frutto di una decisione improvvisa e inconsapevole.

Tuttavia, nell’accogliere il ricorso del dipendente, la Suprema Corte ha ritenuto che il turbamento psichico che menomi la capacità di intendere e di volere è di per sé sufficiente per legittimare l’annullamento delle dimissioni e che, per contro, non è necessario che tale capacità sia totalmente assente.

I giudici di Piazza Cavour, colgono l’occasione per richiamare alcuni principi giurisprudenziali in merito alla capacità di intendere e di volere in relazione all’art. 428 c.c., ossia:

- ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere (quale prevista dall'art. 428 cod. civ.) non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere (Cass. 22 maggio 1969 n. 1797; Cass. 15 gennaio 2004, n.. 515; Cass. 28 marzo 2002 n. 4539; Cass. 1 settembre 2011, n. 17977);

- l’incapacità naturale consiste in ogni stato psichico abnorme, pur se improvviso e transitorio e non dovuto a una tipica infermità mentale o ad un vero e proprio processo patologico, che abolisca o scemi notevolmente le facoltà intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione degli atti che si compiono o la formazione di una volontà cosciente (Cass. 12 luglio 1991 n. 7784; Cass. 14 maggio 2003 n. 7485);

- la prova dell’incapacità naturale può essere data con ogni mezzo o in base a indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (Cass. 7 aprile 2000 n. 4344 e Cass. 28 marzo 2002 n. 4539);

- nel caso di incapacità dovuta a malattia non si può prescindere da una valutazione delle possibilità di regresso della malattia manifestatasi anteriormente o posteriormente, per stabilirne la sua sussistenza nel momento dell’atto (Cass. 15 giugno 1995 n. 6756);

- in presenza di una malattia psichica, se sia stata accertata la totale incapacità di un soggetto in due determinati periodi, prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell’incapacità è assistita da presunzione “iuris tantum”, sicchè, in concreto, si verifica l’inversione dell’onere della prova nel senso che, in siffatta ipotesi, deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo (Cass. 28 marzo 2002 n. 4539; Cass. 9 agosto 2011, n. 17130; Cass. 4 marzo 2016, n. 4316);

- analoga presunzione vale nell’ipotesi di una situazione di malattia mentale di carattere permanente, affermandosi che ricade su chi sostiene la validità dell’atto l’onere di dimostrare l’esistenza di un eventuale lucido intervallo, tale da ridare al soggetto l’attitudine a rendersi conto della natura e dell’importanza dell’atto (Cass. 26 novembre 1997 n. 11833). Per contro, è onere del soggetto che sostiene la validità dell’atto dare prova che esso fu posto in essere, in quel periodo, durante una fase di remissione della patologia.

La Suprema Corte sottolinea, inoltre, che nel caso di specie, tali principi devono essere comunque “calati” nel contesto specifico del caso esaminato dove l’atto negoziale impugnato sono le dimissioni da un rapporto di lavoro.

In particolare, occorre accertare rigorosamente che la volontà di rassegnare le dimissioni è stata manifestata in modo incondizionato ed univoco.

La sentenza di annullamento delle dimissioni comporta il diritto del lavoratore a riprendere il lavoro e quello di chiedere le retribuzioni dovute e non pagate sin dalla domanda (e non dalla data delle dimissioni).

La questione trattata dalla sentenza in commento suggerisce alcuni approfondimenti in considerazione dell’attuale nuova disciplina delle dimissioni introdotta, a partire dal 12.3.2016 (quindi successivamente alla pronuncia di primo grado), dal D. Lgs. 14.9.2015 n. 151 e dal D.M. 15.12.2015.

Come noto, infatti, in seguito alla riforma, le dimissioni del lavoratore devono essere formalizzate, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche ed il lavoratore può revocarle entro 7 giorni dalla trasmissione. Tale facoltà non richiede alcuna motivazione e, pertanto, può essere esercitata discrezionalmente dal lavoratore. Successivamente a tale periodo di ripensamento, non è chiaro se e in che misura possano ancora valere le considerazioni espresse dalla Suprema Corte con la sentenza in commento, la quale – come detto – si riferisce ad un caso accaduto ante riforma. E’ da chiedersi, infatti, se attualmente - anche successivamente al decorso del termine di sette giorni -  il lavoratore possa chiedere l’annullamento delle dimissioni per vizio del consenso o l’accertamento della loro nullità.

Applicando i principi generali, le azioni di nullità e annullamento dovrebbero essere possibili anche dopo il decorso del periodo di ripensamento. D’altro canto, alla luce del meccanismo previsto dall’attuale disciplina, è possibile che in futuro, in sede di decisione, i giudici applichino tali principi generali con maggior rigore, ponendo a carico del lavoratore l’onere di dimostrare l’offuscamento della volontà (totale o parziale)  non solo al momento delle dimissioni, ma anche per tutto il periodo durante il quale il medesimo avrebbe potuto revocarle.